1 maggio 2024

1° maggio, quei vecchi lavoratori del Po. La storia dei traghettatori tra le due sponde. Un mestiere che il rilancio turistico del fiume potrebbe far rinascere

Oggi, festa del lavoro, è giusto e doveroso ricordare anche i mestieri ormai scomparsi (o quasi). Ce ne sono tanti e parecchi erano quelli che, un tempo, davano lavoro, vivacità e vita ai nostri piccoli centri di campagna. I tempi sono cambiati, le “mode” anche e fa tristezza, oggi, attraversare i nostri paesi e vedere, ormai ovunque, un numero incalcolabile di saracinesche abbassate, ormai coperte dalla ruggine e dalle ragnatele. Oggi la gente preferisce i grandi “baracconi” in cemento credendo di risparmiare: ne siamo certi? Non è che magari si spende di più perché, ad esempio, si portano puntualmente a casa oggetti e articoli che, se non avessimo visto, non avremmo mai preso? Per non parlare poi dei tantissimi che preferiscono fare acquisti online, facendosi arrivare direttamente le cose a casa perchè è più comodo, più semplice, più economico (tutti aspetti, anche questi, su cui si potrebbe discutere ampiamente). Intanto sono sempre di più i negozi che chiudono; ci sono addirittura interi comuni ormai rimasti senza botteghe: centri che si sono spenti (inutile negarlo), svuotati, sembrano essere al collasso e forse lo sono, probabilmente in modo irrimediabile. Viene facile dare la colpa ai politici e agli amministratori di turno; dimenticandoci che forse le prime colpe sono esattamente le nostre, quelle delle nostre abitudini, della nostra moda e siamo noi, con i nostri comportamenti, a decretare la fine delle botteghe di paese. I

l maestro Giuseppe Verdi che, oltre ad essere il grande musicista e compositore che tutti conosciamo, era anche un imprenditore lungimirante e capace ed un uomo dotato di rara saggezza, diceva “Tornate all’antico e sarà un progresso”. Non è stato ascoltato: ed i risultati infatti sono lì da vedere (per non entrare nel merito dei luoghi legati alla sua memoria, alla sua vita e alle sue opere, dei quali si è già scritto, in buona parte lasciati in preda ad erbacce e rovi e in qualche caso anche crollati come il suo mulino di Sant’Agata). Ce ne sarebbero da dire ci vorrebbe molto più che un “poema”. Chi scrive queste righe è, da sempre, legato al Grande fiume, alla sua storia, alla sua gente e alle sue vicende quindi meglio scrivere di quello, di quel Po che da sempre è fonte di vita per chi vive sulle sue rive, sull’una e sull’altra sponda. Lo era di più in passato, oggi molto meno. Ma chissà che, prima o poi, quel “Tornate all’antico e sarà un progresso” non venga preso seriamente e si facciano rivivere mestieri che potrebbero dare un futuro alle nostre famiglie ed ai nostri centri di campagna. 

C’erano barcaioli e passatori, pontieri e mugnai, pescatori professionisti, scaricatori e facchini di piarda, cavatori di sabbia e ghiaia, scariolanti e carrettieri, boscaioli, lavandaie e tabacchine, per citarne alcuni.  Tra i numerosi mestieri che, un tempo, si svolgevano tra l’una e l’altra riva del Grande fiume, una menzione particolare la merita quella del traghettatore. Un lavoro che, per la sua finalità principale, che era quella di collegare le due sponde trasportando persone e merci, può essere considerato un simbolo, a pieno titolo, dell’unione fra l’una e l’altra riva del Po. Una professione da tempo scomparsa come scomparsi, ormai, sono i vecchi traghetti. Chissà che, da qualche parte, non se ne possano ancora recuperare, almeno in piccola parte, i pezzi, oltre che le memorie e le immagini. E’ doveroso, anche in questo caso, farne memoria ma è anche doveroso credere nella possibilità che un simile mestiere possa tornare in auge, nell’ambito dei progetti di valorizzazione e promozione turistica e culturale del Grande fiume e di tutta quell’area ricompresa nella Riserva Po Grande Unesco. Tornare a collegare le due sponde via acqua, sviluppando sia i collegamenti di carattere mercantile e commerciale che potenziando i percorsi turistici e culturali tra le due sponde (dando quindi la possibilità di trasportare persone e biciclette) è una carta da giocare, e su cui scommettere, anche nell’immediato. Per il bene, presente e futuro, delle terre del medio Po. Passando alla storia riguardante traghetti e traghettatori, c’è una chicca conservata nel Museo della civiltà contadina “Giuseppe Riccardi” di Zibello.  Proprio all’ingresso dell’importante realtà culturale spicca un manifesto, di quasi cento anni fa, datato primo aprile 1923, del Consorzio pel Servizio di traghetto sul Po fra Zibello e Pieve d’Olmi. In questo avviso pubblico, l’allora sindaco di Zibello informa che “in seguito alla sistemazione della strada portuaria in territorio di Pieve d’Olmi, nonché alla costruzione di un natante della portata di 5 cavalli e 5 carretti a 2 ruote, da oggi è stato ripreso il servizio di Traghetto sul Po fra questo Comune e quello di Pieve d’Olmi, da tempo rimasto inoperoso per difficoltà di comoda viabilità. Chiunque voglia usufruire di tale passaggio – si legge ancora – troverà il servizio pronto e inappuntabile”. Nell’avviso si annuncia quindi che il passaggio di pedoni e veicoli, dall’una all’altra sponda, si effettuerà ogni giorno con imbarchi da Zibello alle 5.30, 9.30, 14.30 e 17.30. Gli imbarchi da Pieve d’Olmi, invece, alle 7, 11, 14 e 19. Nel manifesto sono qui riportare tutta una serie di tariffe. Si va dai 60 centesimi per un pedone senza carico alle 20 lire per macchine trebbiatrici a vapore per frumento, melica ed altri prodotti agricoli; motori a scoppio per aratura e segatura camions e conduttore. Zibello è stata terra di mitici traghettatori, come il leggendario “Ciufana” (“al secolo” Giuseppe Cavalli) e Roberto Arduini. A “Ciufana” (uno che, se lo chiamavi Giuseppe, non avrebbe nemmeno immaginato che ti rivolgevi a lui, perché per tutti era e resta “Ciufana”) il “Corriere Emiliano” (denominazione con cui uscì la Gazzetta di Parma tra il 1928 e il 1940, mantenendo comunque, come sottotestata, il nome originario) dedicò un interessante articolo.

Era Ciufana anche il nonno – ricorda l’ex sindaco e grande storico locale Gaetano Mistura – tutta gente del Po. Ciufana padre – aggiunge Mistura – era un gigante che sembrava dominare il fiume. Quando con la sua barca a remi si staccava dalla riva per raggiungere l’altra sponda si poteva pensare che stesse sbagliando direzione, che avesse preso male la mira, ma per lui la corrente, il vento, la deriva non avevano segreti, sbarcava al punto di approdo senza sbagliare di un centimetro, anche nella notte più fonda. Se lo aveste chiamato con un fischio (perché così si chiamavano i barcaioli) per farvi traghettare sull’altra sponda, ve lo sareste visto arrivare, sudato ed esausto, in mezzo alla nebbia, ma pronto per portarvi sull’altra riva. Ciufana, mitico abitatore del fiume che, come una creatura mitologica metà uomo e metà pesce, poteva vivere sulla terra e nell’acqua, indifferentemente”. Non solo Ciufana, ma anche Roberto Arduini è stato, per molti anni, un importante e stimato traghettatore locale. A lui, il compianto giornalista e scrittore Elio Grossi, per tanti anni prezioso collaboratore della Gazzetta di Parma, nel suo libro “Uomini e mestieri di ieri e di oggi” aveva dedicato tutto un capitolo in cui lo stesso Arduini ricordava gli anni trascorsi a Casalmaggiore con gli spostamenti tra Cremona, Monticelli d’Ongina, Casalmaggiore, Pizzighettone (con trasferte, quindi, anche lungo l’Adda), Boretto e Guastalla. Quindi, il rientro a Zibello nel 1946 (dopo gli anni da prigioniero di guerra in Sud Africa) e l’ingresso come socio nella Cooperativa Trasporti Fluviali con cui si organizzavano le prime gite, di una sola giornata, da Zibello a Cremona (specie per la fiera di San Pietro). Tre anni dopo, quindi, dopo l’acquisto di un residuato bellico, il ritorno in proprio, come traghettatore, con collegamenti tra Zibello e la storica Tenuta “Della Zoppa” (sulla riva cremonese). In quel periodo, Arduini, trasportava quello che gli capitava, in particolare gruppi di giovani che, verso sera, si recavano a ballare di là dal Po. “Spesso – ricordava Arduini a Elio Grossi – si doveva trasportare anche l’orchestra ‘Perini’ di Pieveottoville. Poi si ritornava a notte fonda. A volte anch’io andavo a ballare con loro, ma il più delle volte ne approfittavo per andare a pescare, mia grande passione”. Conoscevo anche i posti ‘proibiti’. I guardiapesca erano a ballare anche loro. Guadagnavo più con un bello storione, che con una settimana di trasporti. Poi ogni giovedì a Zibello c’era il mercato. Al mattino presto mi portavo sull’altra sponda dove mi aspettavano, come al solito, frotte di massaie cremonesi con ceste di pulcini, anatroccoli e uova. Poi è arrivata l’alluvione (quella del 1951, ndr) che rompendo gli argini guastò tutta la mia ‘ragnatela’ privata. Poi i fuori-borgo, gli entro-bordo…tutte cose che mi hanno prima spazzato via, poi anche spiazzato…”. Tutto perduto? Chi scrive queste righe è convinto di no. Sicuro del fatto che, nell’ambito di una promozione turistica del fiume, che sia rispettosa del suo ambiente e delle sue eccellenze, possa tornare attuale l’idea di promuovere servizi stabili, e quotidiani, di traghetto, che possano ad esempio portare le persone a frequentare di nuovo le fiere ed i mercati settimanali dell’una e dell’altra riva. Magari anche dando vita a nuovi mercati agricoli, legati alla terra e al Po. Restando in tema di traghetti e traghettatori, molto attiva è sempre stata la “linea” tra Stagno Lombardo e Polesine Parmense. La storia stessa conferma che uno degli ultimi porti rimasto in attività è stato quello che collegava appunto le due località. Qui erano attivi, soprattutto, Luigi e Dante Spigaroli, padre e figlio, per tutti semplicemente “Vigion”. Perché i soprannomi sono sempre stati in voga, in ogni tempo e, specie in passato, arrivavano talvolta ad avere più importanza, o comunque più notorietà, del nome ufficiale. Così, se a Zibello c’era Ciufana, a Polesine era attivo Vigion. Luigi Spigaroli era il nonno di Massimo Spigaroli, celebre chef stellato e, da qualche anno, anche sindaco di Polesine Zibello: uno che sulla promozione del turismo fluviale, e della cucina gastrofluviale, ha fatto una vera e propria ragione di vita. Evidentemente l’eredità del nonno Luigi e dello zio Dante (quest’ultimo il traghettatore lo faceva di professione) si è incuneata profondamente (ed è bene che sia stato così) nelle vene e nella testa di Massimo e Luciano Spigaroli, che da anni portano avanti i saperi ereditari dai genitori, dai nonni, dagli zii: tutti legati, intimamente, al fiume. Dante, in particolare, nella sua professione si avvaleva della collaborazione, più che preziosa, di Marass: altro vero e proprio nome d’arte, al punto che praticamente nessuno ricorda come facesse di nome, ed è giusto così. A questa ulteriore mitica figura di fiume è legato un aneddoto ricordato, ancora, dall’ex sindaco di Zibello Gaetano Mistura, meritevole di essere riportata per esteso: “Cla’ scusa siura regina. Sa sava ch’l’era li a’m saress mess almeno li mudandi” (traduzione per chi non mastica il vernacolo: “Scusi signora regina, se sapevo che era lei mi sarei messo almeno le mutande”): “Cosi – ricorda Mistura – un barcaiolo del porto di Polesine Parmense, chiamato Marass, in una giornata torrida degli anni Venti, rivolgeva le sue scuse alla regina Margherita di Savoia, che doveva traghettare dall’altra parte. Marass, come tutti i barcaioli, portava una camicia lunga, una cinturetta di corda in vita, senza braghe e senza mutande, perché quelle lunghe dell’epoca gli avrebbero impedito la libertà dei movimenti, e la libertà, si sa, è condizione irrinunciabile per gli indigeni di qui. Anche se il vento faceva svolazzare la camicia, nessuno ci badava. Non conosciamo la reazione della regina, ma la storia è vera. Una storia padana che l’acqua fece rimbalzare di bocca in bocca, di casa in casa, di paese in paese, una storia delle tante che rivelano lo spirito terragno e anarcoide, geniale e pazzoide della gente di Po”.

Uno degli ultimi serviti di traghetto rimasto in funzione è stato quello che collegava San Daniele Po a Roccabianca, attività di cui si è occupato, per molti anni, l’indimenticato Natale Bia di San Daniele Po. Attività poi proseguita, negli ultimi tempi, da Gino Barbarini fino alla soppressione del servizio, nel 1980, con l’apertura del ponte sul Po “Giuseppe Verdi”. Quello che collegava appunto San Daniele Po e Roccabianca era un traghetto composto da due barconi in cemento coperti da un’ampia superficie in legno e, alla gestione, partecipavano le Province di Cremona e Parma oltre ai Comuni di San Daniele Po e di Roccabianca. Tra le figure di traghettatori passate alla storia non si può dimenticare il leggendario Pasquino Soriani, mantovano, da tutti ricordato come Pascale che, durante la sua esistenza, traghettò migliaia di persone e, soprattutto, durante l’alluvione del 1951, salvò una sessantina di persone che stavano per annegare. A Cremona è passato alla storia Teuta e qui si va agli anni Venti del Novecento quando, in estate, venivano traghettati i bagnanti nei pressi delle Colonie Padane, mentre a Crotta d’Adda, fino agli anni Settanta, è rimasto attivo, col suo traghetto, Orlando Grilli. Infine, andando ancora più indietro nel tempo, altra storica figura è stata quella di Pietro Pecchioni (Sarmato 1828, Parma 1908), garibaldino e barcaiolo, costruttore di barche e traghettatore del Po. Tra i grandi traghettatori una menzione particolare la merita proprio Pietro Pecchioni, sepolto nel cimitero della Villetta a Parma, dove è ricordato con tanto di busto ed una artistica tomba. Doveroso parlarne perché gli uomini del Po vanno ricordati tutti. Gaetano Mistura, ex sindaco di Zibello, insigne studioso di storia locale di recente si è anche recato personalmente al cimitero della Villetta, rendendo omaggio a Pecchioni di cui si parla ampiamente nel “Dizionario biografico dei parmigiani illustri” di Roberto Lasagni. Grazie proprio alla fondamentale collaborazione di Gaetano Mistura è possibile mettere nella giusta evidenza la figura del Pecchioni che nacque da Luigi, costruttore di barche e traghettatore sul Po. Seguendo il mestiere del padre, il Pecchioni ebbe modo sin da giovane di trovarsi a contatto colla numerosa schiera di esuli e di patrioti che passava clandestinamente il confine, per portarsi in Piemonte o in terra straniera. A vent’anni il Pecchioni si arruolò nelle guardie di Finanza del Ducato, corpo che accolse molti simpatizzanti del movimento mazziniano, tra cui diversi affiliati della Giovine Italia. Fu destinato, come doganiere, al porto di Sacca, presso Colorno, a due passi quindi da Casalmaggiore. Partecipò alle più rischiose imprese che i mazziniani prepararono per sollevare lo Stato parmense, governato da Carlo di Borbone. Alla congiura contro Carlo di Borbone il Pecchioni partecipò attivamente: fu tra coloro che, appostati presso la Porta di San Michele, avrebbero dovuto (21 marzo 1854) attentare alla vita del Sovrano. Il Pecchioni fu affiancato da un’altra guardia di finanza, Luigi Facconi, entrambi armati di stili fabbricati dal fabbro Pelagatti. Il duca doveva transitare di là per recarsi a Modena, secondo informazioni avute dal postiglione ducale Pattini, confidente dei congiurati. Ma la carrozza passò troppo rapida e il colpo mancò. Il Pecchioni riuscì ad allontanarsi e a riprendere il suo posto a Sacca. La domenica successiva (26 marzo), giorno fissato per un nuovo attentato, si portò di nuovo a Parma e si appostò con gli altri congiurati lungo il presumibile cammino che il duca avrebbe dovuto fare per rientrare a palazzo dopo la consueta passeggiata lungo lo Stradone. Raggiunta strada Santa Lucia (oggi via Cavour), all’altezza della chiesa omonima, Carlo di Borbone venne pugnalato da Antonio Carra, appostato nella via con Ranzoni. Il Pecchioni anche quella volta si eclissò subito, rivestì la divisa e tornò al suo servizio di doganiere. Il Pecchioni partecipò anche all’insurrezione del 22 luglio, che, per incapacità dei capi, per mancanza di organizzazione e per leggerezza degli iniziatori che non seppero nemmeno tenere segreta la cosa, venne al suo nascere soffocata nel sangue. Il Pecchioni combatté nei pressi della caserma della guardia di Finanza e riuscì a sfuggire all’accerchiamento delle truppe. La repressione fu feroce. Due soldati, Mario Bacchini di Borgo San Donnino e Baldassarre Poli di Parma, che avevano fatto causa comune con gli insorti, furono immediatamente fucilati. Gli altri tredici morti della giornata furono vittime della ferocia delle truppe. Numerosissimi furono gli arresti, tra cui quello di Emilio Mattei che venne catturato gravemente ferito alle gambe. Alla gendarmeria ducale non sfuggì il contributo dato alla sommossa dalle guardie di Finanza e il 27 luglio vennero arrestati diversi militi di quel corpo, tra i quali il Pecchioni e l’Adorni. Seguirono le feroci inquisizioni del Krauss, chiamato appositamente da Mantova come esperto in quel genere di istruttorie. Il 5 agosto vennero fucilati Mattei, Adorni, Facconi e Boncompagni. Il Mattei, non potendosi reggere sulle gambe fratturate, venne fucilato legato a una barella sollevata in alto. Nel secondo gruppo di inquisiti vi fu il Pecchioni, accusato di aver partecipato non solo alla sommossa ma anche alla congiura contro il Duca. Per un mese tenne fronte agli spietati interrogatori dell’inquisitore austriaco che, per strappargli la confessione, lo sottopose alla tortura delle bastonate. Con sentenza del 9 settembre, assieme agli altri correi, venne dichiarato colpevole di crimine di cospirazione contro lo Stato e condannato ai lavori forzati a vita, mentre Davide Franzoni e Alessandro Borghini vennero fucilati. I condannati vennero consegnati all’Austria e tradotti nel castello di Mantova. Il Pecchioni entrò nel carcere apparentemente rassegnato, ma col deciso proposito di evadere.

Con ben simulata tranquillità, riuscì a vincere la naturale diffidenza del personale di custodia e ad accaparrarsi la simpatia del cappellano, che lo prese con sé come chierico. Fu pure addetto al servizio nella cucina e a segare la legna nel magazzino: ebbe così modo di studiare la topografia del luogo e di orientarsi per preparare la fuga. Una parete del magazzino, coperta da una grande catasta di legno, era costituita da un muro esterno del Castello, rivolto verso il lago. Accordatosi con altri due reclusi, delinquenti comuni, che gli erano compagni nel lavoro, cominciò ad aprire un varco nella catasta, arrivando in breve al muro di cinta. In seguito, mentre a turno due segavano rumorosamente la legna, l’altro sgretolava con mezzi di fortuna il muro. Dopo diverse settimane di lavoro, la breccia fu ultimata. Il Pecchioni, fidandosi della sua agilità e della sua abilità di nuotatore, si gettò nell’acqua e, con poche bracciate, seguito dai due compagni d’evasione, riuscì a raggiungere un vicino canneto e a nascondersi. Il Pecchioni si diresse poi verso il Po, che varcò a nuoto rientrando negli Stati parmensi. Giunto a Parma, riuscì a mettersi in comunicazione con Clemente Asperti e Andrea Maturini, patrioti, presso cui si rifugiò. Dopo pochi giorni lasciò Parma e si diresse a Genova con una lettera di raccomandazione per Nino Bixio, che lo prese come suo attendente, che servì fedelmente per tre anni. Nel 1859, arruolatosi nei Cacciatori delle Alpi, combatté valorosamente a Varese e a Treponti contro le truppe dell’Urban. Nel 1860 il Pecchioni fu di nuovo a Genova, e il 5 maggio si trovò a Quarto nella schiera dei Mille, assegnato alla seconda compagnia comandata da Vincenzo Orsini. A Talamone si staccò dal grosso della spedizione per far parte della colonna Zambianchi, equipaggiata, prima di ogni altra, di armi e camice rosse. La spedizione, attuata a scopo diversivo, si concluse infelicemente dopo pochi giorni: il piccolo drappello, un centinaio di uomini cui si erano aggiunti i 90 volontari partiti da Livorno con Andrea Sgarallino, scontratosi coi pontifici appena varcato il confine, venne sconfitto alle Grotte di Castro. Dopo la sconfitta di Castro, alcuni dei volontari garibaldini vennero fatti prigionieri e altri si sbandarono, cercando di raggiungere in qualche modo Garibaldi. Tra questi ultimi vi fu il Pecchioni che riuscì a tornare a Genova, in tempo per partecipare, col grado di sergente, alla seconda spedizione Medici e a battersi poi valorosamente a Milazzo e al Volturno. Sciolto l’esercito meridionale, il Pecchioni ritornò a Parma dove fu assunto come guardia municipale. Si sposò con una fruttivendola che conduceva un piccolo negozio nell’Oltretorrente, dalla quale ebbe dodici figli. Quando fu collocato in pensione, non bastandogli il modesto assegno comunale né quello dei Mille, ebbe in concessione il laghetto del giardino pubblico di Parma, industriandosi a guadagnare qualche soldo dando a nolo le barche. Una vera e propria epopea, quella dei traghettatori. Una storia importante e preziosa, quelle di una attività che potrebbe portare nuovo lavoro, nuova linfa e nuova vitalità, sul fiume: anche per quello sviluppo turistico di cui tanto si parla ma anche ha bisogno di uno slancio vigoroso.

Eremita del Po

Paolo Panni


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commenti


ennio serventi

1 maggio 2024 20:37

Teuta fu famoso a Cremona per il suo andare e venire dalle guardine cittadine. Lavorò come traghettatore due anni fra il 1945 ed il 1947 nel periodo della ricostruzione del ponte. Poi si trasferì a Ventimiglia.

Michele de Crecchio

2 maggio 2024 13:30

Il laboratorio fotografico, da decenni felicemente operante presso la scuola geometri di Cremona in via Palestro, documentò, a suo tempo e prima che la sua attività cessasse a causa della avvenuta costruzione del ponte in località Crotta d'Adda, il difficile lavoro del traghettatore locale. Con le fotografie allora realizzate fu realizzato un gradevole libretto dedicato, appunto, al "Caronte" di Crotta d'Adda.

ennio serventi

2 maggio 2024 20:10

Caronte di Crotta d'Adda l'ho conosciuto personalmente. Per una questione di raggiungimento di contributi previdenziali, lasciato il remo, fece lo sterratore per la impresa Bassanini che perendeva appalti di scavo per l'AEM. Piccone e badile per intenderci

Daniro

3 maggio 2024 16:13

Molto interessante la storia dei traghetti e dei traghettatori. Oggi credo che le tre Regioni più ricche d'Italia potrebbero permettersi di far partire una navigazione fluviale cadenzata come quella lacustre che colleghi le varie località turistiche. Gli attacchi ci sono, mancano i mezzi navali. Non grandi navi (tipo Mattei) ma capci di portare anche le biciclette per l'intermodalita' con la ciclovia Vento. Sarebbe un bel segnale per un turismo più lento, consapevole e sostenibile. Se poi il tutto fosse connesso alla rete ferroviaria per il trasporto bici si potrebbero aprire ben altri orizzonti. Bisogna crederci e soprattutto bisogna decidere che ambiente fluviale vogliamo (che non può essere solo quello attuale, con tanti punti interessanti ma poco collegati, con troppa agricoltura intensiva e pioppicoltura industrializzata che arriva fin sulla riva del fiume e che ha cancellato in settant'anni boschi e zone umide).