31 marzo 2021

Colalucci: il mio approccio all'opera d'arte

Il ricordo di una grande personalità,  per chi l’ha conosciuta, non è mai un’immagine  esaustiva.  Al contrario,  si evidenziano aspetti specifici che entrano in sintonia con gli interessi culturali dell’interlocutore.  Se si offrisse una presentazione parziale  e se si mancasse di un’inquadratura di campo, si evidenzierebbe un rapporto fatto di sintonia d’intenti  convergenti su argomenti specifici. 

È quanto accaduto a me negli incontri con il Prof. Gianluigi Colalucci.  Sapendolo allievo di Cesare Brandi, critico d’arte e soprattutto grande teorico del restauro,  in occasione di un nostro colloquio,  mi sono permessa di chiedergli quale fosse il suo approccio all’opera.  

Va ricordato infatti che il critico e lo storico dell’arte influenzano l’opinione del fruitore, ma il restauratore, al pari di un medico,  pone mano all’opera.  Il compito del restauratore è quello di sottrarla al degrado cui è sottoposta dal tempo e, troppe volte, dall’incuria dell’uomo;  ma il suo intervento in alcun modo deve modificarne l’identità,  cui, oltre l’artista, la “patina” del tempo partecipa.

Da ragazzo,  Gianluigi Colalucci aveva incontrato Cesare Brandi all’Istituto Centrale del Restauro (I.C.R.) che, come  allievo,  frequentava.  L’Istituto Centrale del Restauro, voluto da Giuseppe Bottai e diretto da Brandi, accoglieva giovani che volevano indirizzarsi verso la pratica e la carriera del restauratore. Così, il giovanissimo Colalucci,  ammesso a frequentare i corsi, iniziò quella consuetudine con Brandi.  Questi  aveva fatto suo il tema del restauro entro l’ottica del pensiero della Fenomenologia di Edmund Husserl e nell’applicazione  della Gestalt (teoria della percezione) e, forte di tali riferimenti, aveva elaborato un approccio al progetto di restauro. 

Seduto accanto allo studente e di fronte all’opera,  Brandi gli insegnava a “vederla”,  a percepirne i caratteri individuanti e,  con atteggiamento maieutico,  gli faceva comprendere come l’intervento  di restauro non dovesse in alcun modo manometterne l’identità estetica e storica.  Brandi sosteneva, mi si consenta dire “sostiene”, che “l’opera è nel singolare riconoscimento che avviene nella coscienza” (in Teoria del Restauro). Altra dimensione l’opera non ha. Essa non si qualifica per una propria presunta oggettiva appartenenza ad un settore definibile  concettualmente , ma si affida all’esperienza che ciascuno di noi vive ed esprime attraverso il “giudizio riflettente”. Diviene necessario porsi al cospetto dell’opera con grande attenzione,  individuando in essa tutti gli aspetti che suscitano interesse. Ma, poiché  l’opera si pone “di fronte” (è astante), questa rivela, al contempo, la propria unicità che porta anche i segni del tempo: la “patina lasciata dal tempo pittore”.  Qualora  un’opera abbia subito un degrado che ne interrompe la lettura,  in tal caso diviene necessario reintegrarla nella sua propria unicità.  Ma nessun restauratore si può porre al posto dell’artefice.  Non rimane che intervenire  per eliminare la lacuna  facendo uso della tecnica del “rigatino”.  È questo un metodo che consente di restituire alla percezione  (gestaldt) l’immagine,  metodo riconoscibile che non induce in errore il fruitore evitando il “falso storico”.  

Questa lezione veniva impartita allo studente Colalucci dal maestro Brandi ponendo il giovane al cospetto dell’opera in modo che fosse essa a suggerire il progetto di restauro. La lezione è stata fondamentale per Colalucci  quando si è trovato ad affrontare il lavoro,  soprattutto ad eseguire l’intervento sul giudizio universale.  Affrontare  l’opera  di  Michelangelo significava per lui non sottrarla al tempo, ma farle recuperare quelle condizioni di leggibilità che solo un intervento consapevole,  oggetto di grande studio,  consente di riconsegnarla alla fruizione.  Se a Colalucci  si facesse riferimento solo come restauratore e non si comprendesse quale insegnamento  supporti la sua professionalità,  egli,  purtroppo per tutti noi, sarebbe destinato ad un ricordo  che nel tempo si sbiadirebbe.  Al contrario, il suo operato va connesso alla lezione di Brandi di cui è stato allievo attento con quella  maestria capace di trasferire nella prassi l’insegnamento del grande maestro.  Solo allora, dell’amico Colalucci,  rimarrà la memoria autentica capace di educare  sia i restauratori sia l’uomo della strada che, di fronte all’opera,  rimangono coinvolti nel cogliere ciò che essa, in modo unico ed irripetibile,  suggerisce. 

Anna Maramotti Politi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti