14 novembre 2021

L'impressionismo, l'espressionismo e la nostra odissea nello spazio

In Cittadella degli Archivi custodiamo un “Fondo Mostre”, di 386 faldoni, che contiene documentazione su tutte le centinaia di mostre d’arte, realizzate e non, proposte al Comune di Milano dal 1960 al 2000. Di tutte queste, ancora oggi la più visitata in assoluto rimane quella degli Impressionisti della Collezione Puskin del 1996, a Palazzo Reale. Un record imbattuto di centinaia di migliaia di visitatori paganti.

Gli impressionisti hanno indiscutibilmente dominato i gusti e il mercato dell’arte negli anni ’80 e ’90, e i motivi sono alquanto interessanti. Hanno appunto anzitutto caratterizzato in modo impressionante (mi si conceda il gioco di parole) i gusti del pubblico d’arte, di nicchia e di massa, per tutto quel ventennio. Chiunque abbia la mia età ricorda perfettamente che le ninfee di Monet e i girasoli di Van Gogh invasero perfino la cancelleria scolastica con quadernetti e zaini, in ogni ufficio luogo pubblico o scuola campeggiavano i poster dei glicini di Monet e si andavano a vedere mostre che sugli Impressionisti ovunque, che rappresentavano una vera e propria attrazione: bastava un quadro solo in mezzo a decine di stampe, copie e pannelli per riempire un museo.  E non poteva che essere così, perché in fondo è un’arte molto borghese, o meglio, molto adatta alla società estremamente borghese di quegli anni. Senza nulla togliere all’incredibile talento dei suoi artisti e alle vette assolute della tecnica da loro raggiunte, quella impressionista è una pittura disimpegnata, immediata, a tratti perfino compiacente. Come in fondo lo è stata l’inclinazione della nostra società di quegli anni di benessere senza precedenti. E’ un pittura per tutti, piena di colori, di giardini adorabili, di paesaggi rasserenanti, di serate gioiose e luci calde. Non obbliga a riflettere, non è impegnata, è contemplativa ma senza misticismo, pretese ascetiche o sensi di colpa. Federico Zeri ebbe a dire che l’arte di Monet “escludeva qualsiasi rapporto di ordine metafisico”: tradotto dipingeva quello che vedeva senza volergli attribuire alcun significato se non quello estetico. Una chiave di lettura (a mio avviso più un fraintendimento)  in cui spesso si incappa è quella di attribuire all’Impressionismo la volontà di trasmettere attraverso quel tipo di pittura le sensazioni intime (impressioni, appunto) generate dall’osservazione della realtà travisando il temine francese originariamente utilizzato da Monet nel quadro Impression, soleil levant che ha dato il nome alla intera corrente, ma che semplicemente cattura l’effetto della luce di un’alba sul mare “impressa” sulla tela in quel momento. 

Parte di questo successo è stato però, come sempre, anche causato e indotto dal mercato: le grandi corporations giapponesi, divenute ricchissime sull’onda di un super sviluppo all’occidentale che ricorda molto i cinesi di oggi, negli anni ’80 iniziarono ad investire in arte e le quotazioni degli impressionisti hanno raggiunto vette inimmaginabili e soprattutto costanti nel tempo. Ancora oggi rappresentano uno dei più solidi e richiesti investimenti finanziari nell’arte. Lo scorso aprile Sotheby’s NY ha battuto per 35 milioni di dollari un piccolo quadretto di Cezanne con tre pere e tre pesche pagate letteralmente a peso d’oro, e il suo “Giocatori di carte” è finito in Quatar per 250 milioni pochi anni fa.  

Eppure, ad un’asta della Casa Cognac alla fine deli anni ’40, le mele di Cezanne furono pagate poco meno di un milione di euro al valore di oggi: era un mondo diverso, dove chi comprava arte apparteneva a una élite ancora aristocratica, e soprattutto che usciva dalla catastrofe delle guerre mondiali e che era abituata a un’arte molto più impegnata, sia al servizio della politica che contro di essa. Lo Stalinismo, Il Nazismo e il Fascismo avevano utilizzato l’arte come strumento di propaganda, e proprio alla genesi di quel contesto, nella Germania socialista di Weimar, nacque una corrente che si è sempre posta e vista in antitesi con l’Impressionismo, venendo chiamata appunto Espressionismo, e che invece denunciava lo sfinimento delle aristocrazie e l’avidità del borghesismo, le contraddizioni dello sviluppo industriale, la distruzione che la cavalcata inarrestabile della modernità stava imponendo, la solitudine e la paura dell’uomo davanti all’affacciarsi del secolo di sangue che fu il ’900. Mentre gli Impressionisti inseguivano le albe per fermare sulla tela la loro rasserenante bellezza, i tramonti gettavano gli Espressionisti nell’ansia più tetra: basta leggere cosa scrive Edward Munch di come è nato il suo quadro simbolo dell’Espressionismo durante una banale passeggiata al calar del sole con gli amici: “Esplodeva il rosso sanguinante mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente - ho avvertito un grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo - i colori della natura - mandavano in pezzi le sue linee - le linee e i colori risuonavano vibrando - io realmente ho udito quell'urlo - e poi ho dipinto il quadro L'urlo”. Non credo si debba aggiungere altro. E puntualmente queste atroci ed esagerate paure divennero realtà negli orrori degli olocausti inimmaginabili delle due guerre mondiali, e come spesso accade l’arte con la sua animalesca preveggenza aveva intuito tutto prima che succedesse. Quel colore che nell’Impressionismo sfoca in una tavolozza evocativa di serenità, nell’Espressionismo è feroce provocazione: in Emil Nolde perfino nella Natività di Maria il bambino Gesù è rosso sangue. 

“Nel prim’anno della guerra, Picasso ed io scendevamo il Boulevard Raspail in una rigida sera d’inverno. E tutto a un tratto compare un gran cannone nella strada, il primo che chiunque di noi avesse veduto dipinto, vale a dire mimetizzato. Pablo si ferma, occhi sbarrati. – C’est nous qui avons fait ça! – disse. (Siamo noi che l’abbiamo inventato! ndr) E aveva ragione, senza dubbio alcuno.” Così scrive Gertrude Stein in “Picasso”: il grande artista vede il primo cannone mimetico e si rende conto che è perfettamente cubista. Anni dopo dirà addirittura che quella sera comprese che loro, i cubisti, avevano inventato la modernità, avendo senza dubbi interpretato in modo perfetto l’impatto nella storia dell’uomo della civiltà delle macchine. E’ la realizzazione che una fissazione pittorica in realtà cela quella straordinaria intuizione dei cambiamenti epocali che è propria del grande artista. Ed ancor più impressionante è proprio che armi e soldati moderni sembrano veramente usciti da un quadro cubista. 

Noi stiamo ormai certamente uscendo, molto nolenti e per nulla volenti, dal lunghissimo edonismo dorato degli anni’80 che infatti ancora imperversa in TV, e ci troviamo già, il Covid ce lo ha ampiamente dimostrato, nella società della sterilizzazione massiva dei comportamenti sociali e del nichilismo degli iperconsumi, in cui anche l’arte pare non aver quasi più niente da dire. E se l’arte è presaga, allora c’è da stare poco allegri, perché se non dice niente e non sente niente, probabilmente ci attende il niente. Spero che invece non sia stata presaga l’arte cinematografica di Kubrick in “2001 Odissea nello spazio”: un uomo solo che galleggia nelle comodità offerte da un computer dal quale rischia poi di venire distrutto.

Forse avremmo bisogno di un po' di sano “Espressionismo 2.0” …

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

Francesco Martelli


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commenti


Daniela Azzola Farinotti

14 novembre 2021 08:24

Come sempre l'originalità dello spunto per confrontarci ai giorni nostri è alla base di ogni tuo pezzo,scritto benissimo,grande stile raffinatezza

Martelli

14 novembre 2021 09:42

Grazie!

Licia

14 novembre 2021 17:09

Articolo istruttivo, argomento interessante, esposto in modo molto chiaro e scorrevole. Grazie per i contenuti dei suoi articoli, che leggo sempre con piacere e interesse.

Martelli

14 novembre 2021 21:50

Grazie a lei!