5 dicembre 2021

Prepareremo la strada a Cristo riconoscendoci mendicanti di misericordia

Uno degli aspetti più belli dell’esperienza cristiana è che Dio è di una concretezza disarmante: non fa discorsi fumosi, non offre dottrine astratte, non costruisce morali irragionevoli: Egli, semplicemente – se così si può dire – si fa carne, diventa esempio tangibile di come vivere e per cosa vivere, si incunea nella storia umana per non uscirne più. È talmente prossimo all’uomo che questi si può specchiare nei suoi occhi.

La Sacra Scrittura, per capirci, non è un manuale di teorie, una enunciazione a tavolino della natura di Dio, ma la descrizione appassionata di una lunga, certo difficile, ma sempre viva, storia di amore che trova il suo compimento, la sua dichiarazione più alta, in Gesù vero uomo e vero Dio. Cristo è il sigillo di questo amore, è il bacio che Dio depone dolcemente sulla bocca dell’uomo.

Questa concretezza ci è offerta in questa seconda domenica di Avvento dall’evangelista Luca, «lo scriba dalla mansuetudine di Cristo» tanto per citare il nostro sommo poeta. Figlio di pagani, medico di professione, egli si rivolge ad una comunità di ellenisti che si sono convertiti al Cristianesimo ed è per questo che non si stanca di rimarcare l’universalità della salvezza portata dal mite Maestro di Nazareth.

Luca, all’inizio del capitolo terzo, coniuga proprio concretezza e universalità! Egli, infatti, situa la missione di Giovanni il Battista in un’epoca ben definita e all’interno di una storia concreta che coinvolge tutti, non solo il popolo d’Israele, ma anche le genti pagane. Gli ebrei, dunque, non sono più i soli depositari della salvezza: ogni uomo, con Gesù, potrà godere di questo dono straordinario. 

E la cosa bella è che la Parola prende dimora in questa storia di peccato, di dominio, di prepotenza e di prevaricazione (l’impero romano), di immoralità e di arroganza (Erode e i suoi fratelli) e non da ultimo di religiosità formale e piegata unicamente al potere (i sommi sacerdoti Anna e Caifa). È nella storia dell’uomo, soprattutto in quella più misera e disperata, che Dio si manifesta. E lo fa ripristinando la profezia che ormai da cinque secoli era muta. Certo questa Parola non cade nei palazzi del potere, non attecchirebbe, ma su Giovanni che ha fatto del deserto il suo pulpito. Il deserto è il luogo che Dio privilegia: solo nel silenzio, nell’essenzialità, nell’austerità si può percepire la voce del Signore. In questa terra brulla e sconfinata l’uomo può riappropriarsi di sé stesso, interrogare la propria coscienza, sfidare il male che si annida alla porta del suo cuore. 

Il Precursore, proprio in questo tempo scellerato, annuncia la salvezza di Dio che, però, va accolta in totale libertà e consapevolezza; Sant’Agostino argutamente direbbe: “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”.

Il Battista, infatti, invita prima di tutto a riconoscere i propri peccati attraverso un battesimo di conversione: la fede esplode quando ci si accorge, nonostante il proprio fallimento umano - il fatto di costituire solo un misero coacervo di male e di oscurità - di essere cercati da Dio! Che stupore, che meraviglia: io peccatore non solo sono atteso dal Padre, ma addirittura Lui, in persona, corre incontro a me per abbracciarmi e rivestirmi della nuova dignità di figlio!

È come se Giovanni gridasse: abbiate il coraggio di fare verità in voi stessi, date il nome al vostro peccato, siate consapevoli di dove sta andando il vostro cuore. Come corporalmente non si può curare una persona se non sia ha chiara percezione delle infermità che l’affliggono, così spiritualmente non ci si può convertire se non si individuano con precisione le malattie spirituali che schiavizzano il cuore. È un esercizio duro, difficile, impegnativo, ma assai benefico: dare il nome al peccato significa cominciare a prenderne le distanze!

Preparare la via del Signore allora vuol dire fare un profondo esame di coscienza, situarsi spiritualmente, elencare con precisione ciò che separa da Dio, dai fratelli, da sé stessi.

Serve, quindi, conoscere bene la strada da percorrere indicando i burroni (ovvero la disperazione spirituale, la sfiducia che il bene che il Signore ci promette sia possibile), ma anche i monti e i colli (cioè l’orgoglio e la presunzione di poter fare a meno del Cielo), così come le vie impervie e tortuose (tutti quei vizi che ammorbano il cuore e rendono difficile la contemplazione del volto di Dio).

Perché preparare la via al Signore non significa giungere dinanzi a Lui – che sia Natale o un giorno qualsiasi dell’anno – moralmente perfetti, ma consapevoli di essere fragili, di mancare nella nostra umanità, di essere stati affascinati dal peccato e di essere scesi a compromesso con il male. Vedremo la salvezza nella misura in cui ci abbandoneremo a Lui e riconoscere che Lui è il nostro tutto, il senso ultimo del vivere e del morire. A Dio interessano certo i nostri peccati, ma gli interessi ancora di più che ci fidiamo di Lui nonostante i nostri peccati.

Prepareremo davvero la via al Signore se avremo la stessa fede, semplice e nobile, di San Paolo VI che ancora cardinale di Milano elevò nella lettera pastorale per la Quaresima del 1955 questa sublime preghiera:

O Cristo, Tu ci sei necessario,
o solo vero maestro delle verità recondite e indispensabili della vita,
per conoscere il nostro essere e il nostro destino, la via per conseguirlo.

Tu ci sei necessario, o Redentore nostro,
per scoprire la nostra miseria e per guarirla;
per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità;
per deplorare i nostri peccati e per averne il perdono.

Claudio Rasoli


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