20 settembre 2021

Il fornaretto di via Giuseppina (18)

E' un caldo pomeriggio di inizio agosto. Il 3 agosto. Nella casa popolare al numero 6/b di via Giuseppina, anonima come tante altre, si boccheggia. Le finestre sono tutte aperte, le tapparelle abbassate per cercare l'illusione di un poco di frescura. Il frinire delle cicale è assordante e copre qualsiasi altro rumore. Siamo nel 1965, ed anche se la via è una di quelle a grande comunicazione, il traffico, vuoi per il periodo di ferie che per le poche automobili in circolazione, è scarso. Un po' per passare il tempo, un po' perchè glielo aveva promesso il giorno prima, Virginia Caruso, insieme alla figlia Sonia Avalli, suonano il campanello all'appartamento di Enrichetta Somenzi, al piano rialzato sulla parte sinistra del caseggiato. E' vero, sono in ritardo perchè l'appuntamento era fissato alle 15, ma Virginia aveva avuto un impegno da cui non aveva potuto liberarsi prima. Perciò, quando suona alla porta, non si preoccupa che l'amica non venga subito ad aprirle. Forse è già uscita. Attende dunque qualche minuto per esserne sicura. Poi, quando ormai è in procinto di andarsene, sente un tramestìo, una porta che si apre e si richiude ma, anziché l'amica, sente provenire dall'appartamento il pianto di Simonetta, la piccola figlia di Enrichetta, di soli tre mesi. La neonata piange disperata, ed è l'unico segno di vita che sembra provenire da dietro quella porta chiusa. Squarcia il pigro silenzio del pomeriggio assolato. Iniziano ad affacciarsi i vicini: cosa può essere accaduto ad Enrichetta che non lasciava mai quella bimba da sola per un attimo? Si affacciano anche Maria Trivini con il marito, che abitano al piano di sopra: si sporgono dalla finestra che guarda verso il cavo Cerca, fiancheggiato da una stradina che, attraverso la cascina Gaggia, conduce a via Buoso da Dovara. Guardano in basso, dove ha la finestra la camera da letto di Enrichetta e, con raccapriccio, vedono il davanzale insanguinato. Qualcuno corre a prendere una scala per raggiungere il piano rialzato, alto da terra poco più di quattro metri. Entra nella camera da letto. E' tutto in ordine, se non fosse per quel sangue che ha macchiato la bella tenda di organza. Si dirige allora verso la cucina, la prima camera a sinistra che si incontra entrando in casa. Ed allora diventa immediatamente tutto chiaro. Si materializzano tutti i presagi più funesti di quel pomeriggio sbagliato: Enrichetta è riversa a terra in una pozza di sangue, il corpo piegato sul fianco sinistro ma il volto rivolto verso il soffitto, un grosso coltello da cucina conficcato in gola e la gonna sollevata che lascia in vista le gambe. Simonetta piange disperata sulla poltrona. Viene chiamata la Questura, arrivano per primi il capo della Mobile Matteo Borgosano con il capitano del nucleo di PS Vincenzo Cappelluzzo ed altri agenti. Simonetta viene affidata alla signora Giorgi, del primo piano e qualcuno chiama il marito, Italo Vassena, dipendente da vent'anni del Consorzio Agrario. Gli dicono che la moglie si è sentita male ma quando entra nell'appartamento viene colto da un malore. 

L'assassino deve essere entrato poco prima delle 16. Sullo stesso pianerottolo vi sono altre due famiglie, ma nessuno ha sentito suonare il campanello, quello con il caratteristico “din don”. La donna deve avergli aperto senza alcun timore, ma appena entrato deve essere iniziata una colluttazione: lo dimostra un vasetto contenente un corto gambo di gladioli, posto su una mensola con specchio, caduto a terra. Altre strisce sul pavimento indicano un primo scontro tra l'assassino e la donna, prima di entrare in cucina, dove la bambina stava probabilmente dormendo. La donna, nel tentativo di reagire, ha sicuramente eccitato la rabbia feroce del suo aggressore, che, per impedirne le grida ha cercato prima di strangolarla con una corda di nylon bianca usata per il bucato, poi ha afferrato un piccolo coltello dal lavandino, subito scartato perchè poco acuminato, ed infine ha ghermito il grosso coltello da cucina infierendo sulla donna senza pietà. Proprio in quell'istante è suonato il campanello e, dopo un attimo di sbigottimento, l'assassino ha ripreso il controllo di se stesso, ha cercato una via d'uscita, percorrendo il corridoio fino alla stanza da letto, ha scostato le tende imbrattandole di sangue ed è saltato dal davanzale atterrando sull'erba posta a lato di un piccolo marciapiede. Da qui ha superato il cancello e raggiunto la stradella in terra battuta che costeggia il Cavo Cerca, è sceso lungo la sponda, come lasciano intuire le impronte di scarpe rintracciate dagli agenti della Squadra Mobile, e si è lavato le mani dal sangue prima di far perdere le proprie tracce. 

Sul tavolo della cucina, accanto al coltello insanguinato, una cartolina: “Tanti bacioni e saluti, la vostra Ginetta”. E' martedì. Il giovedì precedente Enrichetta con il marito, il vigile Moglia e la madre di quest'ultimo erano andati in auto alla colonia marina di Pinarella di Cervia a trovare la figlia maggiore, Ginetta, 11 anni, che sarebbe dovuta rientrare quindici giorni dopo.Una giornata felice, che non lasciava presagire la tragedia: “Mia moglie non usciva quasi mai e quando usciva veniva con me – racconta il marito Italo Vassena – Al sabato andavamo a fare le grosse spese e quando aveva bisogno di qualcosa telefonava e le mandavano tutto a casa”. Evidentemente l'assassino conosceva la donna, che lo ha fatto entrare senza difficoltà. Ma qual era il motivo della visita? Difficile pensare ad una rapina, perchè in casa tutto è in ordine. Denaro non ce n'era, solo i piccoli oggetti d'oro che possiede ogni famiglia, che non sono stati neppure sfiorati. Resta il motivo passionale: un innamorato, conoscente di Enrichetta e forse anche del marito, potrebbe essersi presentato con una scusa qualsiasi sapendo che la donna era sola in casa. Potrebbe avere cercato di abbracciare la donna recalcitrante, lei potrebbe averlo supplicato di andarsene minacciando di mettersi ad urlare, lui, ormai fuori di sé, impaurito dalla reazione, potrebbe aver preso il laccio di nylon per zittirla, poi il coltello piccolo, ed infine le  avrebbe sferrato il colpo fatale alla gola col coltello da cucina, col preciso intento di ucciderla. A quel punto sarebbe suonato il campanello, Simonetta si sarebbe messa a piangere e l'assassino, vedendosi ormai braccato, avrebbe tentato l'unica fuga possibile lanciandosi dalla finestra della stanza da letto, senza neppure pulirsi le mani lorde di sangue. Lo avrebbe fatto dopo, lungo la sponda del cavo Cerca, prima di dileguarsi in via Giuseppina. Troppo rischiosa la strada per la cascina Gaggia per raggiungere via Buoso da Dovara dove avrebbe corso il rischio di essere notato da qualcuno.

Le indagini sono condotte dal Sostituto Procuratore della Repubblica Fulvio Righi, che ordina una perizia necroscopica al dottor Gigi Lena, il quale non può far altro che constatare che la poveretta è morta a causa di “una ferita da punta al collo con taglio della carotide e della trachea”. Sono le 20,30 quando il corpo di Enrichetta viene chiuso in una cassa di legno e trasferito all'Istituto di patologia generale per le analisi del caso. Solo allora viene notato, posato sul ripiano del porta-abiti all'ingresso dell'appartamento, un libro giallo: sulla copertina un uomo sta strangolando una donna. Il titolo è “Il sipario della morte”. Lo aveva lasciato una parente della vittima la settimana prima, quando lo aveva acquistato per leggerlo in treno tornando da Milano. Un presagio sinistro. In strada si è assiepata una folla di curiosi.

Con l'aiuto dei testimoni, la mattina seguente, si cerca di ricostruire le fasi precedenti l'omicidio. Di prima mattina giungono sul posto il Sostituto Procuratore Righi ed il dirigente della Mobile Borgosano. Enrica Volpari, che abita al terzo piano, dice di essersi affacciata alla finestra alle 16,10 e di aver visto Enrichetta uscire dal cancello e riempire d'acqua due secchielli sul Cavo Cerca, per innaffiare una piccola striscia di terra dove coltivava dell'insalata. Con ogni probabilità la donna aveva lasciato aperta la porta del piccolo appartamento dove Simonetta stava dormendo, per non far rumore entrando ed uscendo. Un'altra abitante del terzo piano, Lina Denti, racconta di aver notato le tracce di sangue sul davanzale della finestra e di aver pensato ad un incidente perchè anch'essa aveva visto la vittima poco prima in cortile. Anche un ferroviere dice di aver visto Enrichetta risalire le scale intorno alle 16,20. Sulla base di questi elementi si tenta una prima ricostruzione dell'omicidio. L'assassino potrebbe essere entrato nell'appartamento mentre la donna stava innaffiando l'insalata, approfittando del fatto che l'uscio fosse aperto, poi, sentendola arrivare, si sarebbe nascosto nel cucinino di fianco al tinello, da cui si può raggiungere il balcone. Enrichetta, una volta entrata, si sarebbe diretta verso il balcone per togliersi le ciabatte che indossava quando era scesa, poi sarebbe rientrata nel tinello forse per rigovernare il cucinino, dove l'uomo era nascosto dopo essersi munito probabilmente del filo di nylon trovato forse sul lavandino. Vistosi scoperto l'assassino con velocità fulminea le avrebbe messo il laccio intorno al collo, lasciando alla donna solo il tempo di afferrare il piccolo coltello in un estremo tentativo di difesa e prendendo a sua volta il grosso coltello da cucina. Forse Enrichetta, prima di esser ferita mortalmente dal suo aggressore ha inferto a sua volta qualche colpo alle mani dell'assassino con il piccolo coltello, ma nulla di più. Tutto dovrebbe essere durato pochi minuti, prima che Sonia Avalli e la madre suonassero il campanello. L'assassino, probabilmente agile e giovane, si sarebbe allora dileguato dalla finestra con un salto di oltre quattro metri. Poi, con una notevole freddezza, si sarebbe ripulito del sangue nel cavo Cerca. Era ferito? Forse, ma in ogni caso non gravemente. Ben poco danno avrebbe dovuto arrecare il piccolo coltello impugnato da una donna con un laccio al collo. La ricostruzione farebbe propendere, dunque, per un delitto non premeditato, compiuto da un ladruncolo che, nella calura del pomeriggio, avrebbe percorso senza essere visto la passerella che collega il condominio alla via, si sarebbe intrufolato nel primo appartamento trovato aperto al piano rialzato approfittando dell'assenza della padrona di casa, si sarebbe poi nascosto per non essere visto dalla donna rientrata in casa, ma, una volta scoperto, di fronte alla reazione della donna, avrebbe reagito d'impeto prima cercando di strangolarla e poi colpendola con il grosso coltello. Ma la ricostruzione presenta alcuni punti deboli. Un'altra tesi propende infatti per una diversa dinamica dei fatti: la donna avrebbe conosciuto il suo assassino, che era già entrato nell'appartamento prima che lei uscisse in cortile. L'uomo avrebbe atteso seduto in tinello che lei finisse di innaffiare l'insalata, poi, una volta rientrata in casa, sarebbe accaduto qualcosa di inatteso che potrebbe aver scatenato la reazione di uno dei due. Ma anche questa ricostruzione ha i suoi punti deboli: perchè Enrichetta non avrebbe mai alzato la voce, forse per non insospettire i vicini sulla presenza di un uomo in casa che non fosse il legittimo marito? E se così fosse, perchè invitare alle 15 a casa propria le due vicine di casa? Ci si chiede poi perchè la vittima non indossasse alcun indumento intimo. Viene spiegato che dopo la nascita di Simonetta, avvenuta tre mesi prima alla casa di cura “La Pace”, Enrichetta non sopportava alcun indumento e quando era in casa se lo toglieva. Si accerta che non vi è stato alcun rapporto sessuale prima dell'omicidio e, del resto, perchè mai la donna, in quel frangente, avrebbe dovuto innaffiare l'insalata piuttosto che invitare le vicine? E' pur vero che il conoscente potrebbe essere arrivato all'improvviso, ma in tal caso come mai nei cinque minuti di attesa trascorsi sul pianerottolo, le due donne non hanno sentito alcuna voce?

Fino a tarda notte vengono interrogati a lungo il marito della donna, Italo Vassena, ed il padre Pietro Somenzi, coltivatore diretto a Solarolo Rainerio, presso cui si è rifugiato Italo. Mentre sono in corso i rilievi, si presenta alle 10 il postino. Ha in mano una cartolina di Ginetta: “Cara mamma e papà, vi scrivo per dirvi che arriverò alle 13 dell'11 agosto. Qui mangio e sto molto bene. Un bacio a Simonetta e saluti a tutti. Attendo i vostri indirizzi. Scrivetemi”. Nell'appartamento di via Giuseppina non viene trovato nulla che possa aiutare nell'indagine: non sono state neppure toccate le trentamila lire che vi erano state lasciate.

Si scava nella vita della vittima: Enrichetta era la primogenita degli otto figli di Pietro e Bruna Somenzi, quattro maschi e quattro femmine. Aveva iniziato a lavorare a 14 anni come donna di servizio a Milano, poi a 17 era ritornata a Solarolo. Un giorno si era presentato un conoscente che aveva chiesto al padre la possibilità di far lavorare Enrichetta come cameriera in una osteria sotto i portici di via Platina, dove nel 1952 aveva conosciuto Italo Vassena. Italo, però, aveva capito che quel luogo non era certo l'ambiente più adatto per una giovane ragazza e le aveva trovato un altro posto presso un'abitazione privata non molto lontana dal lavoro. Una sera Italo, che abitava con i genitori in una casa comunale di via XX Settembre, all'angolo con la scuola industriale Ala Ponzone, aveva ricevuto la visita di Enrichetta che, piangendo, gli aveva detto. “Io non voglio più stare in quella casa, il signore ha tentato di abbracciarmi”. Italo, allora, le aveva trovato una nuova sistemazione come domestica presso una famiglia di via Bonomelli, dove lavorava dal mattino alla sera, per poi rientrare nella casa del fidanzato, dove era ospitata. Un anno dopo i due si erano sposati ed era nata Ginetta. La giovane coppia aveva fatto trasloco in via Giuseppina, aveva acquistato a suon di cambiali una “Seicento”, e poi era nata Simonetta, che quel 3 agosto aveva solo tre mesi.

Si sparge la notizia che sia stato arrestato un giovane siciliano di 21 anni, residente nello stesso caseggiato della vittima. In effetti la sera stessa di martedì, il giorno del delitto, gli agenti della Mobile avevano invitato a presentarsi in Questura un ragazzo che, a prima vista, presentava dei graffi sul collo, che un sanitario, però, aveva giudicato essere una semplice infezione della barba. Nel frattempo vengono interrogate 35 persone, conoscenti, o presunti tali, della donna, ma sembra che nessuno abbia visto l'assassino fuggire. Gli agenti sono convinti che l'identikit sia rintracciabile nella vita, passata e recente, di Ernestina. L'autopsia eseguita dal professor Pierluigi Mariani rivela che sul suo corpo l'omicida ha inferto otto colpi, sulla cute, uno molto profondo all'occhio destro e gli altri sul collo con il coltello piccolo, che dunque non era stato utilizzato dalla donna, ed un fendente quando ormai la donna, ferita, cercava debolmente di reagire, di inaudita violenza che ha quasi reciso il collo dal busto. Tra le dita della mano destra vengono trovati alcuni capelli biondicci, corti ed ondulati, lembi di pelle tra le unghie e, sembra, qualche filo di tessuto. L'uso dei due coltelli lascia supporre che l'assassino non sia stato ferito, dal momento che la vittima non sembra abbia avuto la possibilità di difendersi. Sul suo corpo vengono rinvenuti graffi dal basso verso l'alto dal seno sino alla spalla e dalla scapola alla spalla, ritenuti elementi importanti per la ricostruzione del delitto: infatti se l'assassino avesse provocato per primi i graffi frontali, avrebbe aggredito la donna alle spalle, e dunque quest'ultima non avrebbe potuto vederlo, in caso contrario lo avrebbe visto in viso, ma non avrebbe gridato al momento dell'aggressione. Viene accreditata maggiormente la prima ipotesi: l'assassino, nascosto nel cucinino, avrebbe aggredito Ernestina cercando di ucciderla con la cordicella di nylon bianca, trovata avvolta al collo della vittima: un gesto fulmineo ma non sufficiente a soffocarla. La donna sarebbe caduta a terra, e l'assassino, vedendola muoversi, avrebbe aperto il cassetto del mobiletto bianco posto sotto la cucina a gas, afferrando il primo coltello, quello piccolo, e colpendola dall'alto in basso prima all'occhio destro e poi al capo, dopo averle sferrato un pugno all'occhio destro. Non contento, avrebbe brandito il coltello da cucina, sferrando il fendente finale. 

Differente la ricostruzione se si considera l'aggressione frontale. In tal caso Enrichetta, rientrata in casa, dopo essersi tolta le ciabatte sul balcone, si trova di fronte l'uomo, ma non grida, perchè lo conosce, forse è un precedente innamorato. Tra i due potrebbe essere avvenuto uno scambio concitato di frasi, quasi sussurrate per non svegliare la bambina che dorme su una poltrona del tinello, oppure per evitare pettegolezzi nel caseggiato. Forse l'uomo ha tentato di abbracciarla, vincendone la resistenza, la donna si ribella, le unghie dell'assassino la feriscono, si volta tentando di sfuggire alla presa, ma lui la ghermisce alle spalle, la trascina verso il cucinino, strappa o raccoglie la cordicella di nylon stringendola attorno al collo, la donna sviene, oppure cade ed a questo punto la scena dell'omicidio ricalca la dinamica precedente. Di certo nella meccanica della fuga l'assassino ha dimostrato di conoscere molto bene la disposizione dell'appartamento e del caseggiato: nel cercare la finestra della camera da letto, nel calarsi dal davanzale trattenendosi a penzoloni prima di spiccare il salto, allontanandosi dal muro ed evitando nella caduta il marciapiede, che avrebbe potuto ferirlo, nel ripulirsi dal sangue nel cavo Cerca. Conosceva forse anche le abitudini della donna, sapeva che ogni giorno verso le 16 andava ad innaffiare la piccola striscia di terra, che teneva l'uscio di casa socchiuso. 

Di fatto a due giorni di distanza dall'omicidio si brancola nel buio. Dalla Questura vanno e vengono le auto della polizia, entrano ed escono uomini e donne. Il commissario Velotti corre ad Alessandria per interrogare un tipo che aveva rapporti di amicizia con la donna, ma torna a mani vuote. Viene interrogata fino a tarda sera un'amica intima di Enrichetta che abita in via Bonomelli, ma tra pianti e scene di disperazione, nega di sapere quali fossero le conoscenze maschili della donna uccisa. Esce piangente dagli uffici trascinandosi dietro la figlia di dieci anni che l'ha attesa per tutto il tempo. In serata viene fermato un altro uomo. E' un ragazzo di venticinque anni, Franco Marenzi abitante in via Amati 16, protagonista di uno strano episodio avvenuto il giorno dopo la tragedia: in un bar di via Giuseppina stava leggendo il giornale quando improvvisamente era scoppiato a a piangere, stringendosi il capo tra le mani per poi alzarsi gridando “Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto!”, uscire in strada e dirigersi di corsa verso San Sigismondo. Ma nel corso dell'interrogatorio si scopre che era semplicemente ubriaco e viene rilasciato.

La psicosi dell'assassino in fuga contagia l'intera città, profondamente scossa dalla tragedia. Alle 19,30 di giovedì 5 agosto giunge in Questura una telefonata di un tale che asserisce di aver visto sotto il terzo pilone del ponte sul Po, sulla sponda piacentina, un ragazzo che, notato da una guardia giurata, era fuggito dileguandosi tra i boschi. Inizia una caccia all'uomo tra il ponte e la Maginot, partendo dal baracchino di “Burtul”, che conferma l'avvistamento: il giovane, dell'apparente età di 20-25 anni, altezza media, capelli chiari, indossava dei calzoncini marroni, era imbrattato e sembra avesse ferite o graffi sul collo. Alla vista di una guardia giurata e di un'altra persona che lo osservavano, senza alcuna ragione il ragazzo aveva iniziato a correre, dirigendosi alla Maginot, subito inseguito dai due. Sulle sue tracce si buttano una ventina di agenti ma, nonostante le ricerche durino tutta la notte, il ragazzo sembra svanito nel nulla.

Sono oltre un centinaio le persone che sfilano in Questura. Viene anche sentita una persona che pare abbia frequentato Enrichetta durante la villeggiatura in Riviera, a Bogliasco, tra Nervi e Genova. Le ipotesi si sprecano, ma in realtà le indagini non riescono ad incanalarsi in una direzione precisa. Si viene però a sapere che, prima della telefonata giunta in Questura, già un altro residente a Mezzano Chitantolo, Luigi Bolzoni, aveva notato quello strano ragazzo in calzoncini che si aggirava tra le boschine del Po: Bolzoni lo aveva visto verso le 15,30 mentre percorreva in bicicletta la stradina che porta al baracchino di “Burtul” ma alla sua vista, il giovane, che distava non più di una quindicina di metri, si era nascosto nella vegetazione. Lo aveva anche riferito al maresciallo dei Carabinieri di Monticelli d'Ongina che, con un appuntato, aveva raggiunto la boschina in motocicletta, aveva scorto il giovane a circa trecento metri di distanza, ma non era riuscito a raggiungerlo. Solo dopo oltre un'ora dall'inseguimento qualcuno si era deciso a telefonare alla Questura di Cremona. Nonostante si sia ormai reso conto di essere inseguito, il ragazzo, tuttavia, non abbandona la riva del Po: viene visto anche la sera stessa del giovedì verso le 22,15 ed una donna, che abita in una cascina nei pressi della Maginot lo nota la mattina dopo nascosto dietro una pianta, con in testa un cappello di paglia. Anche stavolta, però, il ragazzo sfugge all'inseguimento. Le ipotesi su chi possa essere si sprecano, anche se nel frattempo viene abbandonata la pista del delitto passionale. Occorre, però, fare presto: gli inquirenti confidano molto sugli scarsi frammenti di pelle trovati sotto le unghie della donna, effetto delle graffiature inferte all'assassino, che potrebbero scomparire nel giro di pochi giorni. E d'altronde sembra che la donna non avesse un altro uomo. Se il ragazzo avesse a che fare con l'omicidio di Enrichetta, potrebbe essere solo un maniaco od un ladro occasionale.

Ad una settimana dall'omicidio l'assassino di via Giuseppina non ha ancora un volto. Ci si chiede come sia mai possibile che nessuno l'abbia visto uscire saltando da una finestra, imbrattato di sangue, alle 16,30 di un pomeriggio d'agosto in una via tra le più trafficate diretta al centro della città. Le carte vengono rimescolate più volte, si risentono tutti i residenti dello stabile, si mette in dubbio che si sia effettivamente lavato le mani nel Cavo Cerca, dove qualcuno avrebbe dovuto notarlo. Anche la solita inquilina che se ne stava ogni giorno alla finestra, quel pomeriggio non c'era, un'altra era uscita... Eppure c'è qualcosa che non torna. Sul letto vengono trovate le impronte di una persona che vi si sarebbe seduta, su lato dove dormiva abitualmente il marito Italo Vassena. Si ricostruiscono, dunque, i primi istanti di quel pomeriggio: Enrichetta si era alzata, lasciando a letto il marito, che aveva chiamato alle due meno venti, poi aveva rifatto completamente il letto. La tapparella della camera era stata abbassata, ma in modo da lasciar filtrare la luce. Se, dunque, prendesse corpo l'ipotesi che un uomo vi si fosse seduto dopo, questo si sarebbe diretto in tinello dopo aver sentito rientrare Enrichetta e chiudere la porta, incontrandosi faccia a faccia con la donna. E ritorna la domanda che fin dall'inizio tormenta gli inquirenti: perchè Enrichetta non ha gridato alla vista dell'uomo? Dunque, ricostruendo: Enrichetta aveva allattato Simonetta intorno alle 15,30, poi era salita da un inquilina al piano superiore, era ridiscesa nell'appartamento per prendere i due secchielli con cui andare ad innaffiare. L'assassino era dunque entrato nell'appartamento durante l'assenza della donna, ma non poteva essere un ladro occasionale. Perchè sedersi sul letto ad attendere, quando invece avrebbe avuto tutto il tempo necessario per iniziare la ricerca febbrile di qualche oggetto di valore da trafugare?

Emerge un altro particolare: nel corso dell'autopsia sulla schiena della donna vengono rinvenuti 40 grammi di sabbia, che si erano raccolti all'altezza della cintola con cui aveva fermato il prendisole che indossava in quel momento, un prendisole che lei stessa aveva allargato con ritagli dopo il parto, quando era ingrassata qualche chilo. Si fa strada la convinzione che qualcuno sappia, ma non voglia parlare.

La svolta, improvvisa, arriva giovedì 26 agosto. Dalla sera precedente è sotto torchio in Procura un ragazzo di 19 anni, Gianluigi Ghilardotti, aiutante fornaio, residente sullo stesso pianerottolo di via Giuseppina 6/B dove abitava la vittima. A dar man forte nell'interrogatorio è giunto anche un magistrato da Brescia, il sostituto procuratore generale Agostino Pianta, che verrà ucciso quattro anni dopo, il 17 marzo 1969, mentre sta uscendo dal palazzo di Giustizia di Brescia da un ex condannato, Loris Guizzardi. Il ragazzo era già stato interrogato il giorno stesso del delitto e nei giorni successivi, ma era sempre sembrato tranquillo. Solo il lunedì sera, nel corso dell'ennesimo confronto, aveva avuto qualche attimo di esitazione, un tremore mentre gli stavano esaminando mani e braccia. Il giovane confessa, ma le indagini proseguono ancora per alcuni giorni, fino a quando il procuratore Agostino Pianta emette nei suoi confronti un mandato di cattura per omicidio pluriaggravato con premeditazione, che gli viene letto in carcere. Tuttavia, nonostante Ghilardotti abbia confessato il delitto, il procuratore Pianta dispone che il fascicolo venga inviato al giudice istruttore Pietro Ciambi per un supplemento d'indagine. Resta infatti da definire la complessa personalità dell'omicida, ma, soprattutto, il vero movente che l'ha spinto ad uccidere. Solo due settimane dopo il ragazzo fornisce al magistrato la sua verità e ricostruisce come sono andati esattamente i fatti. Fin dal giorno del suo arresto Gianluigi aveva sostenuto di avere da circa un anno una relazione con la donna, che aveva deciso di troncare nell'unico modo possibile, uccidendola, per evitare che raccontasse tutto al marito, così come lei stessa aveva minacciato di fare. Ma un successivo interrogatorio di Italo Vassena aveva messo in luce una serie di incongruenze e contraddizioni nel racconto fornito dal giovane che, sentito nuovamente dal giudice, aveva finito con il crollare, raccontando esattamente cosa fosse accaduto quel giorno.

Tutto ha inizio il pomeriggio del 2 agosto, lunedì, il giorno prima del delitto. Gianluigi suona all'appartamento della donna. Da qualche tempo è ossessionato dall'idea di averla e quel pomeriggio ha deciso di dichiararsi. Enrichetta apre, il giovane entra, le comunica le sue intenzioni, ma lei, come prevedibile, reagisce intimandogli di uscire immediatamente di casa e minacciando di raccontare tutto al marito. Il ragazzo se ne va rassegnato. Verso sera incontra il marito della donna e si scambiano un saluto. Si fa strada allora nella mente di Gianluigi un'idea folle: forse c'è ancora una speranza. Se Enrichetta non ha detto nulla a Italo, significa che non tutto è perduto. In fondo è questa la prima volta che si è dichiarato apertamente e, se la diretta interessata non si è offesa, potrebbe essere più fortunato la seconda. Martedì pomeriggio la scena si ripete. Gianluigi suona ancora all'appartamento, Enrichetta apre e lui tenta di abbracciarla. Lei si divincola ed in preda alla rabbia urla al giovane che la sera stessa avrebbe raccontato tutto al marito e si sarebbe poi recata in Questura per denunciarlo. Il giovane è frastornato, deluso e sente montare l'ira. Rientra in casa e si getta sul letto. Ormai è fatta: ha combinato un guaio. Se la donna avesse messo in atto le sue minacce sarebbe stato uno scandalo. In fondo che il marito potesse malmenarlo, era il meno. A preoccuparlo è la minaccia della denuncia. Come evitarla? Non vi è che un modo. Lui, considerato da tutti un ragazzo modello, servizievole, ubbidiente, stimato sul lavoro, non può permettersi di avere la reputazione rovinata.

Mentre Gianluigi rimugina sul da farsi, Enrichetta è scesa in cortile ad innaffiare. Trascorre mezzora, la più lunga della sua vita, poi Gianluigi suona nuovamente il campanello. Enrichetta non sospetta nulla, perchè è in attesa della visita della vicina già concordata il giorno prima. Apre, e se lo trova davanti, senza neppure il tempo di reagire. Lui con un balzo varca l'ingresso e chiude la porta dietro di sè. Sa benissimo cosa deve fare e non ha un attimo di esitazione: ha tra le mani la cordicella di nylon che usa abitualmente per legare il cesto del pane al motorino. Lo getta intorno al collo della donna e stringe, impedendole di gridare. La trascina nel tinello e poi nel cucinino, la colpisce all'occhio con il coltello più piccolo, lei si accascia ma respira ancora. Nel frattempo suona il campanello, sono Virginia Caruso e la figlia Sonia Avalli. Deve far presto, prende un grosso coltello da cucina e colpisce ancora. Poi scappa in corridoio dopo essersi tolto i sandali insanguinati. Si cala dalla finestra, corre lungo il muro fino a raggiungere l'inferriata bassa della finestrella della lavanderia. Vi si issa sopra appoggiandovi le mani lorde di sangue, afferra con uno slancio la ringhiera del balcone superiore, il suo. Pochi secondi ed è salvo, non lo ha visto nessuno. Si lava in bagno ed inizia a farsi la barba, quando suonano al campanello è sorpreso: “Non ho sentito nulla, dormivo”. Il 14 settembre, dopo 21 giorni di carcere, Gianluigi Ghilardotti può incontrare il suo avvocato difensore, Gianfranco Groppali, in vista del processo in Corte d'Assise. 

L'epilogo sembra ormai scontato, quando l'11 novembre il giovane fornaio ritratta la sua versione:  ad uccidere Enrichetta non sarebbe stato lui, ma uno sconosciuto. Il giudice istruttore Ciambi, che lo interroga, raccoglie la nuova confessione: 15 giorni prima del delitto Ghilardotti avrebbe incontrato un giovanotto, un certo Carlo, pavimentatore bresciano possessore di una misteriosa Seicento bianca, che il primo agosto gli avrebbe chiesto se conoscesse la signora Vassena. La risposta, ovviamente, era stata affermativa ed il ragazzo gli aveva spiegato che avrebbe dovuto consegnarle del denaro, ma desiderava che l'incontro avvenisse in presenza di un testimone. L'appuntamento per la consegna del denaro sarebbe stato concordato alle 16 del 3 agosto, giorno in cui i due avrebbero incontrato la donna. Carlo, armato con una pistola, si sarebbe presentato a casa dei Ghilardotti, chiedendo a Gianluigi di entrare con lui nell'appartamento di Enrichetta. L'incontro sarebbe degenerato in una lunga discussione e Ghilardotti, impaurito e ritenendo il suo compito ormai concluso, avrebbe lasciato i due alla loro discussione e si sarebbe ritirato nel proprio appartamento. Poco dopo, dalla sua finestra, Gianluigi avrebbe notato il misterioso individuo allontanarsi, insanguinato e lacero, sul marciapiede che circonda l'edificio ma,  mentre era sul punto di domandargli cosa fosse accaduto, l'uomo si sarebbe inerpicato sul suo balcone, sarebbe entrato in casa puntandogli la pistola e l'avrebbe minacciato. Ghilardotti, confuso e terrorizzato, avrebbe nascosto l'uomo sotto il proprio letto fino all'1,30, quando, giunto il momento di recarsi al lavoro, l'avrebbe seguito sino a porta Romana dove vi era un'auto ad attenderlo. Prima di lasciare il giovane, Carlo gli avrebbe ripetuto: “Se parli, ti ammazzo”. 

Il giudice istruttore non sa che peso dare a quest'ultima rivelazione. La ricostruzione presenta alcune incongruenze: infatti, chi avrebbe avvertito il misterioso autista di attendere in auto, se nell'abitazione di Ghilardotti non vi è il telefono? Quest'ultimo, una volta in carcere, avrebbe rivelato la dinamica al padre, dicendo: “Ho paura. Se esco dal carcere mi fanno fuori e quindi è meglio che mi addossi la colpa”. Non è la prima volta che Ghilardotti modifica le proprie versioni. Lo aveva già fatto qualche settimana prima, il 17 settembre, quando aveva smentito di avere avuto una relazione con Enrichetta. Ad ogni buon conto il giorno dopo il giudice istruttore Ciambi, il sostituto procuratore Righi accompagnati da un cancelliere, e dagli avvocati Groppali, difensore di Ghilardotti, e Tirindelli in rappresentanza delle parti civili, compiono un nuovo sopralluogo nell'appartamento di via Giuseppina.

Trascorsa una settimana, il giudice istruttore Ciambi, su richiesta del difensore Gianfranco Groppali, stabilisce di sottoporre Ghilardotti a perizia psichiatrica, nominando in qualità di periti Il professor Carlo Lorenzo Cazzullo di Milano ed il dottor Giulio Gaffuri di Cremona. Nel frattempo emerge un altro particolare a sfavore delle tesi sostenute dal giovane fornaio: secondo i risultati dell'autopsia effettuata sul cadavere della donna dal professor Mariani, Ernestina sarebbe stata inequivocabilmente aggredita alle spalle, spiegando in questo modo l'assenza di una reazione di difesa.

Nel carcere di Milano, dove Ghilardotti è stato condotto in un primo tempo, la perizia psichiatrica cui è stato sottoposto, conferma che il giovane è seminfermo di mente e socialmente pericoloso. Il 28 dicembre 1966 il pubblico ministero Fulvio Righi deposita alla Cancelleria del Tribunale la richiesta di rinvio a giudizio, a conclusione dell'inchiesta condotta dal giudice istruttore Pietro Ciambi. Determinanti sono state le impronte insanguinate trovate sul muro esterno della casa dove è avvenuto l'omicidio e sull'inferriata posta su una finestra dello scantinato, oggetto di una perizia di parte eseguita dal professor Murino, dell'Istituto di polizia scientifica di Roma. In questo lasso di tempo sono state eseguite ben sette perizie, ed è morto in un incidente stradale il marito della donna Italo Vassena. Il 20 marzo 1967 il giudice istruttore presenta la richiesta di rinvio a giudizio in Corte d'Assise di Ghilardotti per omicidio volontario aggravato, tentativo di violenza carnale e violazione di domicilio.

Il 22 giugno 1967 inizia il processo in Corte d'Assise in un'atmosfera particolarmente tesa. Ghilardotti conferma di aver conosciuto Enrichetta, di averle consegnato il pane ed aver svolto per lei alcune commissioni, ma di non aver intrattenuto altri tipi di rapporti. Il presidente della Corte Bonora scatta: “Come mai allora nella sua prima deposizione ha parlato di rapporti sessuali con la Vassena. Ha detto che lei era angustiato dall'ossessionante corte che gli faceva, anche perchè ciò le impediva di farsi una fidanzata”. “Volevo far credere che ero stato io ad ucciderla ed ho confessato perchè non mi rendevo conto di quel che dicevo”. “Ma a chi? - insiste Bonora – Guardi che se ci sono per noi delle perplessità, delle esitazioni è per la ritrattazione più che per la confessione iniziale. Ci sono dei fatti obiettivi che non possono essere dimenticati. Lei ha avuto delle ferite al collo”. Gianluigi parla con tono distaccato e assente. “Me li son fatti radendomi con il rasoio”. “In casa della Vassena sono stati trovati degli stracci che risultarono appartenere a lei. Come sono andati a finire in casa della signora Enrichetta?”. “Non lo so”. “Lo so io, invece. E quella sortita di Carlo? Come le è venuta in mente?”. “Per far parlare i giornali”. “E' tutta una grossa storia; lei ha raccontato una quantità di assurdità per esimersi delle sue responsabilità”. “Non è vero”. Si alzano in piedi gli avvocati e il procuratore generale Righi. Tutti chiedono di parlare. Bonora invita tutti alla calma, poi riprende la parola. “Dunque, degli stracci cosa dice?”. “Non lo so”. “E di Carlo? Lei voleva salire alla ribalta della pubblicità e con un delitto mostruoso voleva farsi della pubblicità”. “Carlo l'ho inventato io per far parlare i giornali, seguivo in quei giorni tutto quel che si scriveva”. “Lei ha fatto delle dichiarazioni ad un sacerdote, don Angelo Bertolaia di Airuno. Anche in quelle dichiarazioni ha ammesso il delitto”. “Sì ma sempre per farmi della pubblicità perchè sapevo che le lettere passavano alla censura”.

Dalla lettura dei verbali delle confessioni rese emerge che il 26 agosto, il giorno dopo il suo arresto, Ghilardotti aveva dichiarato in Questura che i rapporti intimi con Enrichetta erano iniziati intorno alla Pasqua del 1964, quando lei per prima si era dichiarata innamorata: “In seguito – spiegava l'imputato – la Enrichetta spesso mi attendeva sulla porta d'ingresso e con un pretesto qualunque mi faceva entrare in casa. Enrichetta mi convinse a lasciare la mia fidanzata, tale Annamaria Busetti perchè mi voleva tutto per lei. Io la accontentai di buon grado perchè ero innamorato della Enrichetta e troncai il fidanzamento col pretesto che la Busetti non poteva uscire nei giorni festivi”. Nella ricostruzione offerta da Gianluigi i rapporti tra i due sarebbero diventati tesi quando Enrichetta aveva dato alla luce Simonetta e si sarebbero guastati definitivamente verso la fine di luglio quando lui stesso avrebbe deciso di interrompere la relazione.  Il mattino del 3 agosto, mentre era al lavoro al forno di via Bella Rocca, aveva staccato da un chiodo una cordicella di nylon mettendosela in tasca, aveva preso uno straccio che doveva servire a a tappar la bocca della donna ed aveva suonato alla porta di Enrichetta. Aveva aperto la stessa donna e Gianluigi aveva estratto la cordicella stringendogliela al collo con una violenta stretta. Era avvenuta una colluttazione, poi i due si erano spostati in cucina, la donna era caduta a terra svenuta  e lui l'aveva colpita più volte all'occhio destro con un coltellino trovato sul lavandino. In quel momento Virginia Caruso e Sonia Avalli, che avevano un appuntamento alle 15 ma erano giunte in ritardo, avevano suonato alla porta. Lui aveva perso la testa e, afferrato un grosso coltello trovato nel cassetto del tavolino della cucina, le aveva vibrato un colpo alla gola, recidendo la carotide. Si era poi calato dalla finestra con un salto di quattro metri in cortile ed aveva risalito il balcone di casa sua. Si era lavato, era uscito sul pianerottolo e si era mescolato alle altre donne che, sentendo piangere Simonetta, si era accalcate sul pianerottolo cercando di abbattere la porta. Un uomo era poi andato a prendere una scala, ed entrato dalla finestra, e aveva scoperto il delitto.

Alcuni giorni più tardi Ghilardotti era andato a cancellare le tracce di sangue rimaste, anche se quelle lasciate sul davanzale della finestra della camera da letto erano già state notate dai vicini del piano di sopra. Nei successivi interrogatori del pomeriggio del 26 agosto, del 27 e del 30 agosto, il giovane fornaio aveva confermato integralmente le dichiarazioni rese in precedenza. Il 6 novembre 1965, invece, in presenza del pubblico ministero Righi che si era recato ad interrogarlo in carcere, Gianluigi aveva raccontato la storia di Carlo, smentita poi successivamente in un nuovo interrogatorio davanti al giudice Ciambi il 6 luglio 1966. Terminata la lettura dei verbali all'imputato viene mostrato un diario tenuto in carcere, che Ghilardotti riconosce.

Sfilano i testimoni: dapprima Luigi Ruggeri di Genova, che aveva conosciuto Enrichetta durante la villeggiatura a Bogliasco, e poi Virginia Caruso: dice di conoscere Enrichetta da 6 o 7 anni. Quel giorno aveva bussato invano alla porta e una inquilina le aveva detto di aver visto Enrichetta pochi minuti prima mentre innaffiava l'orto. Poi aveva sentito trambusto nell'appartamento ed il pianto di Simonetta, aveva visto arrivare altre donne e, tra queste, aveva anche notato Gianluigi, apparso sulla porta di casa in maglietta e calzoncini. Enrica Cottarelli racconta di aver visto le macchie di sangue sul davanzale della finestra e di aver dato l'allarme. Particolarmente lungo risulta l'interrogatorio di Emilia Rossi, che aveva alle sue dipendenze Gianluigi come apprendista fornaio, che deve chiarire l'esistenza nel suo forno della cordicella di nylon. Sul finire della prima udienza l'avvocato Balzarini consegna alla corte la tessera Avis di Ghilardotti, donatore con gruppo sanguigno A.

Il professor Fornari esclude che le macchie di sangue trovate sul davanzale della finestra, sul muro, le gocce rintracciate a terra e l'impronta del palmo della mano sull'inferriata derivino da un altro corpo, ma piuttosto sono uscite da una ferita che lo stesso assassino si è provocato, diversamente non vi sarebbe stato gocciolamento. Ma la tesi, decisamente favorevole all'imputato, non sembra convincere i giudici della Corte. Per tutta la durata dell'udienza Gianluigi resta impassibile, non ha alcun gesto di insofferenza né di impazienza, solo un fremito quando, al termine della sua requisitoria, il procuratore generale Fulvio Righi, supportato dall'avvocato di parte civile Lionello Tirindelli, chiede una condanna a 24 anni di reclusione e tre di ricovero in una casa di cura. Gianluigi cede solo nel corso della quarta udienza del 27 giugno, riservata alla difesa, scoppiando in lacrime alle parole dell'avvocato Gianni Balzarini, che confuta, uno per uno, tutti gli indizi di colpevolezza portati dall'accusa. Ad iniziare dalle macchie ematiche, per le quali non è stato possibile definire l'appartenenza. Tocca all'avvocato Gianfranco Groppali demolire definitivamente l'impianto accusatorio per la mancanza delle rilevazioni delle impronte digitali sulle tracce lasciate dall'assassino in fuga, per la mancata ricerca dei gruppi sanguigni, per la difficoltà iniziale con cui si sono svolte le indagini, per il ritardo con cui sono state rintracciate le macchie ematiche sulla finestra della cantina: un elemento che inficia anche la prima confessione del ragazzo, chiamato a giustificare prove che la difesa giudica ora false. “Sono – esclama Groppali – confessioni di un gracile di mente per cui invano si cercherà in esse il movente”, e chiede, di conseguenza, l'assoluzione per non aver commesso il fatto e, in subordine, per insufficienza di prove. 

Il 28 giugno alle 13,12, in un silenzio interrotto solo dal raggelante mormorio che trapela tra la folla accalcata nell'aula, il presidente della Corte d'Assise Bonora, dopo tre ore e mezza di riunione in Camera di Consiglio, pronuncia la sentenza: Gianluigi Ghilardotti viene riconosciuto colpevole di omicidio volontario aggravato e condannato a 24 anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Una volta espiata la pena dovrà essere sottoposto a libertà vigilata per un periodo non inferiore a tre anni. Il padre Francesco Ghilardotti, responsabile civile, viene condannato al risarcimento dei danni a favore delle due bambine Simonetta e Virginia, Bruna Salimbeni e Pietro Somenzi, rimettendone la liquidazione al separato giudizio ed accordando la provvisionale di 5 milioni a favore dei minori Simonetta e Virginia Vassena e di un milione a favore di Bruna Salimbeni e Pietro Somenzi. Gianluigi viene assolto dall'accusa di tentata violenza carnale e dall'imputazione di violazione di domicilio aggravata e continuata perchè il fatto non costituisce reato, e viene respinta la perizia che lo aveva dichiarato seminfermo di mente, mentre viene condonato un anno di pena, da 24 a 23 anni. La quinta udienza si era aperta con la dichiarazione di Ghilardotti di non aver commesso il fatto. L'imputato, impassibile e tranquillo come sempre, aveva provocato la reazione del presidente Bonora: “Ma è mai possibile che un uomo non abbia da dire nulla, che non abbia una reazione di fronte ad un fatto abnome quale è l'ergastolo? Un altro griderebbe la propria innocenza istintivamente, come per una reazione meccanica. Dunque, ha niente da dire?”. “No”.

I difensori Groppali e Balzarini annunciano il ricorso in appello. La pesantezza della sentenza lascia tutti sbalorditi, ci si sarebbe attesi una pena più mite. Quando il giudice Alfonso Bonora deposita in Cancelleria le motivazioni della sentenza appare chiaro che i giudici, assolvendo Ghilardotti dalle imputazioni di violenza carnale e di violazione di domicilio, hanno accolto la tesi della relazione esistente tra i due, ritenendo valida la prima confessione del ragazzo per alcuni motivi: “a) per il crollo psichico di Ghilardotti dopo la sua identificazione, onde egli sinceramente confessa non soltanto l'esecuzione ma anche la premeditazione e la preordinazione del delitto, giustificandone il movente nell'esasperazione provocatagli dal comportamento della vittima, giustificazione che non può essere mendace perchè non allevia la sua grave posizione, ed è ripetuta alla Polizia giudiziaria, al rappresentante del PM, al giudice istruttore e perfino ad una guardia carceraria; b) per la conoscenza da parte di Ghilardotti di notizie di natura intima riguardante la gravidanza ed il parto della Somenzi; c) per la mancanza di grida da parte della Somenzi, quando fu uccisa, pur essendo lei a conoscenza che nel cortile o affacciate vi erano delle vicine di casa, come giù motivato in relazione all'ora del delitto”. Dunque Gianluigi ha ucciso perchè voleva liberarsi di una relazione consenziente con Ernestina divenuta insostenibile.

Il 3 dicembre 1968 Gianluigi Ghilardotti compare nuovamente davanti ai giudici della Corte d'Appello di Brescia. Da sei mesi è stato trasferito nel carcere di Civitavecchia, dove si è iscritto ad un corso per tipografio. Il processo, però, appare fin dall'inizio improntato alla riabilitazione morale della vittima, inficiata dalla sentenza di primo grado dei giudici della Corte di Cassazione di Cremona, secondo cui la donna avrebbe avuto una relazione con il giovane. Il procuratore generale Maiorana sottolinea immediatamente l'inizio sfortunato delle indagini, fino a quando, ben 23 giorni dopo il delitto, il dottor Murianni, ritornato dalla ferie, riesamina l'intero fascicolo e l'agente Orsi con il padre di Enrichetta Somenzi, individuano le famose macchie di sangue sull'inferriata di una finestra, che però, secondo il professor Mariani, sangue non è. Altre due perizie non sciolgono del tutto i dubbi. Nell'abitazione di Ghilardotti vengono trovate, secondo l'accusa, piccolissime macchie di sangue su una cordicina penzolante dal balcone, che il perito però esclude, e poi su una tenda ed uno stipite. A quel momento Gianluigi ritratta tutto ed incolpa “Carlo”. L'avvocato Tirindelli contesta la sentenza cremonese in quanto infamante per la donna, perchè “non importa tanto la condanna in sé, gli anni che si possano comminare, importa che la donna ne esca pulita perchè un giorno le sue due bambine possano andare a testa alta e senza l'ombra di una sentenza che squalifica moralmente la loro mamma”. Il pg Maiorana rincara la dose e chiede 26 anni di reclusione.

Nella sua arringa Groppali ribadisce la mancanza di elementi probatori, se si escludono le piccole macchie trovate sull'inferriata; lo straccio trovato non è risultato appartenere ad una camicia del padre; le graffiature trovate sul viso e sul collo del giovane dopo la visita del dottor Bortolotti in Questura sono state “probabilmente causate da una forma d'infezione della pelle”. “In base a questo solo elemento chi può escludere che l'assassino sceso dal davanzale della stanza da letto della Somenzi non si sia fermato un attimo per pulirsi le mani contro le inferriate e quindi si sia allontanato?”. Una semplice prova induttiva non può essere sufficiente perchè Ghilardotti venga riconosciuto colpevole del delitto. Il ragazzo, peraltro, ribadisce al presidente Intonti: “Quello che ho detto è stata tutta una invenzione. Del delitto non ho fatto che parlarne per 20 giorni con i vicini. Nego tutti i fatti”. Anche l'avvocato Gianni Balzarini contesta le prove raccolte dagli inquirenti, soffermandosi in particolare sulle cordicelle di nylon trovate nell'appartamento della vittima, che in un primo tempo sarebbero misurate un metro e sessanta centimetri ciascuna diventati, dopo un nuovo esame, 2 metri e settanta una e un metro e dieci l'altra. “Come è possibile sia avvenuto ciò”, si chiede il legale. 

La Corte d'Appello conferma la condanna a 24 anni, dopo oltre 5 ore di Camera di Consiglio, aggiungendo una condanna a 4 mesi, poi condonati, per violazione di domicilio aggravato, venendo in questo modo incontro alle richieste della difesa per la riabilitazione della vittima.

Il 18 ottobre 1971, a sei anni di stanza dall'omicidio di via Giuseppina, per Gianluigi Ghilardotti si gioca l'ultima carta alla Suprema Corte di Cassazione di Roma. La difesa verte su tre punti: la sua responsabilità, la seminfermità mentale non riconosciuta né della Corte d'Assise né da quella d'appello di Brescia, e in via subordinata la mancata concessione delle attenutati generiche. In ordine ai primi due punti il ricorso viene respinto, rimandando alla corte d'appello di Bologna il giudizio sull'eventuale riduzione di pena con la concessione delle attenuanti generiche. Dopo 7 anni trascorsi in carcere a Gianluigi Ghilardotti viene ridotta la pena di tre anni. Il processo dura solo due ore, il tempo necessario al giovane fornaio per ribadire la propria innocenza.

Fabrizio Loffi


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