4 febbraio 2023

75 anni fa la prima vittoria di "Cio Italia, "el muster", alla 5 Mulini

Si è disputata nei giorni scorsi la novantesima edizione della Cinque Mulini, la corsa campestre più bella e famosa del mondo, la corsa che gli italiani non vincono da una trentina d’anni e che quest’anno il Campione d’Europa dei 10.000 Crippa ha chiuso al secondo posto.

Ebbene uno dei più grandi protagonisti della Cinque Mulini fu il cremonese “Ciò” Italia che per un decennio, negli Anni Quaranta riuscì quasi sempre a salire sul podio e vincendo per la prima volta nel 1948, esattamente 75 anni fa. 

Sia che si tratti di corse a piedi o ciclistiche o di altri avvenimenti sportivi, a farne un emblema vivente dello sport nostrano perché uno dei pochi che sempre hanno posseduto quella sottile capacità di soffrire o gioire vivendo vicende agonistiche sia da dilettante ottant’anni suonati, diritto, inossidabile come più di mezzo secolo prima, il “Cio” lo si vedeva ancora, sino a pochi mesi prima della sua scomparsa, solo qualche anno fa, su ogni traguardo di corsa campestre o su strada, ad ogni riunione di atletica. 

E’ sempre stato l’uomo di ferro dello sport cremonese: sessant’anni almeno trascorsi correndo sulle piste, i prati o le strade di tutta Italia, prima gareggiando, poi allenando, esortando, consigliando centinaia di allievi. 

“Cio” Italia era sempre presente, col sole a picco che scioglieva le ossa o il gelo che tagliava la faccia e induriva i muscoli degli atleti. Lui era lì col suo sorriso pacato, immancabile, ad applaudire, indistintamente, perché per lui erano campioni tutti coloro che arrivavano al traguardo. 

Ed anche più tardi, quando neppure più allenava, dopo che tanti, tantissimi anni eran trascorsi dal giorno in cui per la prima volta aveva messo piede su una pista di atletica, un piccolo, consiglio, un cenno di incoraggiamento ad una ragazzino che forse mai aveva sentito parlare delle sue imprese da leggenda, lo ha mai lesinato. 

E’ stata proprio questa sua costante presenza, sia che si trattasse di corse a piedi o in bicicletta che di altri avvenimenti sportivi, a farne un emblema dello sport cremonese perché è stato uno dei pochi che sempre hanno posseduto quella sottile capacità di soffrire o gioire vivendo vicende ago- nistiche sia da esaltante assoluto protagonista quanto da semplice, ma attento spettatore, sempre sostenuto da quella incrollabile passione e l’immancabile buon umore di chi è in pace con se stesso. 

“Cio” Italia! Fra i più giovani è un nome forse conosciuto solo nell’ambiente dell’atletica leggera, ma per chi ha vissuto vicende sportive negli anni cavallo dell’ultima guerra, costituisce un autentico mito, uno di quelli che hanno fatto la storia dell’atletica, ben aldil̀à dei risultati tecnici ottenuti che pure furono notevoli. 

Potrebbe bastare un record rimasto ineguagliato per molti lustri in una delle più belle, famose e difficili gare nel panorama delle campestri di tutto il mondo, la Cinque Mulini: due vittorie (nel ‘48 e nel ‘50) e due secondi posti nel ‘44 alle spalle di Bevilacqua quando valeva come Campionato Italiano di corsa campestre per proiettarne la figura tra quelle mitiche dello sport, ma non si pùo trascurare qualche altro centinaio di successi strappati sulle piste in terra battuta, nelle brughiere, sugli argini e le strade di mezza Europa, ben corredate da un titolo italiano di maratonina e da non so quante maglie azzurre indossate in oltre 25 anni di attivit̀a agonistica, sempre ai massimi livelli, sempre dando il meglio di se stesso. 

“Cio” Italia era l’eroe di un gruppo di giovani amanti dello sport che lo seguivano su ogni campo di gara, quando calcava marcite o prati ghiacciati o sentieri fangosi che ne esaltavano la indomita resistenza fisica e quella capacit̀a di tener duro nei momenti di crisi. Ogni volta che mi capitava di incontrarlo, i ricordi affluivano alla mente, quelli dei primi successi, quelli di mio padre che ne fu il primo dirigente, amico e tifoso, tanto da fondare la societ̀à di atletica “Cremona Sportiva”, l’at- tuale Arvedi, quasi esclusivamente per lui. Una societ̀a di ragazzi che, per vederlo gareggiare, si sobbarcavano tutte le trasferte in bicicletta dopo aver fatto una colletta per pa- gare ai loro atleti il biglietto del treno. 

Giuseppe Ersilio “Cio” Italia era nato a Tidolo il 7 gennaio 1916. 

«Abitavamo alle Ca’ Basse di Bagnara - raccontava - da quando avevo due anni: il più piccolo di tre fratelli, e Guido, un paio d’anni pìu vecchio, già correva a piedi. Un giorno si stava preparando per i giochi studenteschi. Gli chiesi di poterlo seguire in allenamento. Io avevo 13 anni, lui 15 e frequentava l’Ala Ponzone. Mi disse: io faccio otto chilometri, tu mi vieni dietro per un po’, poi ti fermi a riposare e quando torno indietro, rientriamo a casa insieme. Io naturalmente portavo le scarpe di cuoio. A Bosco ex Parmigiano, mi chiese se volevo fermarmi, ma proseguimmo fino a Gerre e qui, invece di fermarmi, gli chiesi di accelerare un po’. Lo passai e arrivai a casa prima di lui. Quando pap̀a mi vide arrivare a casa, solo, fui costretto a raccontare che non mi ero accorto di averlo perduto per strada». 

Fu proprio Guido ad accorgersi che aveva delle qualit̀a e a portarlo alla prima gara: a Borgo Loreto si disputavano i Campionati provinciali di corsa campestre della Giovent̀u Italiana del Littorio: Balilla, Avanguardisti e Giovani Fascisti. “Cio” era solo un Balilla, Guido era nella categoria superiore, ma siccome volevano stare insieme, falsificarono la sua data di nascita sul cartellino. 

Un certo Gentilini, un Seconda Serie, aveva l’incarico di fare da apripista, ma il piccolo “Cio” non lo sapeva in quanto, al momento del via si stava ancora allacciando una scarpa ed era partito in leggero ritardo.

«A metà gara - raccontava - riuscii a raggiungere Guido e gli chiesi se potevo raggiungere quello in fuga. Mi disse soltanto: “Prova”. Lo raggiunsi a pochi metri dal traguardo e lo sorpassai, ma quella non fu la mia prima vittoria, perchè mi squalificarono subito per via della tessera falsificata».

Fu Dante Bergamaschi. il futuro generale, che prima aveva anche giocato a calcio nella Cremonese, poi divenne Commissario Tecnico della squadra italiana di bob a denunciare il fatto alla giuria. 

Il ragazzino piangeva di vergogna, disperato, ma lo vide il Federale Montanari, si avvicnò per consolarlo, gli disse che era bravo a correre e che avrebbe pensato lui a procurargli con un premio. 

Mi fece consegnare, infatti, una medaglia d’oro di 27 grammi. valeva 324 lire, una fortuna: la portammo a casa a Mamma Regina. Il giorno seguente andammo subito alla Banca d’Italia, allora era in Via XX Settembre, per tramutarla in denaro, ma non volevano perché ritenevano che fosse rubata. Ci dettero il denaro solo quando vennero a sapere la verità direttamente dal Federale. Portati a casa tutti i soldi, li mettemmo sul tavolo. Mamma Regina quasi svenne dall’emozione: eravamo poveri, mai visti tanti soldi in una volta sola.” 

L' interminabile carriera di Italia cominciò proprio quella domenica mattina a Borgo Loreto. Più tardi vennero le prime gare federali con la Cremona Sportiva, la piccola società che aveva trovato la sede al bar Brescia, quindi la Sas-Guf, il Gruppo Sportivo Fiat di Torino durante il servizio militare, la Baracca e la Venchi Unica di Milano, infine i Vigili del Fuoco di Cremona ed ancora la Cesare Barni. Compagni di squadra come Dorascenzi e Taddia, come Pamich, Lanzi e Bevilacqua, come Dordoni, Pelli, Bart e Mastroianni: vent’anni almeno di grande atletica italiana. 

Vinceva spesso nelle campestri e su strada, ma anche in pista a Torino, durante il servizio militare, aveva anche provato a correre i 1500 m. e gli 800, ma le sue specialità erano sempre il cross e il mezzo-fondo, ma gli piaceva soprattutto correre su strada. 

Guadagnava premi su tutti traguardi. Negli anni del dopoguerra, era uno degli atleti pìu in vista a Cremona nonostante la concorrenza dei canottieri Boni e Fanetti, dei ciclisti Pedroni e Ferrari, dei pugili Bonetti, Aroldi e Gianluppi, dei calciatori della Cemonese. 

"Una domenica mattina presto, era il marzo del ‘48 - gli sentii raccontare - faceva freddo e stavo prendendo il treno. Mi trovai alla stazione con Pedroni e Ferrari. Loro avevano vinto i campionati del mondo l’anno prima, andavano a correre una gara importante, credo la Coppa Caldirola, io la Sette Campanili. Ci rivedemmo ancora la sera alla stazione. Gli sventolai sotto il naso le 10 mila lire del primo premio. Anche Alfo aveva vinto, con Silvio secondo, come il solito: 5 mila lire in due! Alfo mi disse: da domenica vengo a correre con te, a piedi anch’io!» Gli risposi che era meglio di no, che aveva le gambe troppo corte, meglio che rimanesse in sella". 

E gli avversari? Battaglie con tutti i più grandi di un paio di generazioni di corridori. Uno sugli altri: Bevilacqua, fortissimo, campione da cui il “Cio” riusc̀i anche a strappare qualche segreto correndogli al fianco. Era imbattuto da cinque anni il giorno in cui proprio Italia riuscì a superarlo in una grande edizione del Premio Pirelli alla Bicocca e fu proprio il campione battuto a corrergli incontro e ad abbracciarlo per primo. 

Non mancarono, naturalmente, anche le delusioni, e qualcuna cocente, come la mancata partecipa- zione alle Olimpiadi di Londra, traguardo massimo per un atleta, in una edizione poi, attesa come non mai, dato che erano state annullate le due precedenti. Puntava alla maratona. Aveva gìa dominato il campionato italiano di maratonina e nella gara di selezione, a Torino, viaggiava verso il traguardo in solitudine, quando una fitta improvvisa, lancinante, lo colse alla coscia. Mancavano cinque chilometri al traguardo e il miraggio di emulare Dorando Petri, svanì. Il piemontese Costantino, rivale di sempre, che già era stato staccato, andò al traguardo, poi a Londra mentre lui si fermava ai bordi della strada. 

Un piccolo incidente gli era già capitato in marzo a Genova e gli era costato tre giorni di degenza in ospedale. Stava percorrendo l’ultimo chilometro della famosa “Coppa Rabotti” su strada e tallonava come un ombra Bevilacqua che, ad un certo punto, rallentò vistosamente. Italia interpret̀o quel rallentamento come una “imbastitura” e, siccome altri li seguivano, scattò decisamente, ma abbordò una curva a velocit̀a eccessiva finendo fuori strada. Ne uscì piuttosto malconcio, gomiti e mani sbucciate, un ginocchio gonfio come un melone. Riuscì a rimettersi in strada e a proseguire, ma venne beffato proprio sul traguardo da Malachina. Fu costretto a star fermo una ventina d giorni prima di riprendere la preparazione che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto portarlo alle Olimpiadi. 

Un altro malaugurato incidente pìu tardi a Venezia, gara su strada con arrivo in pista. Umidità, afa, un caldo infernale: un tormeno per uno abituato più alle nebbie e al freddo della bassa: un colpo di sole improvviso lo fece crollare a pochi metri dal traguardo. Pelliccioli, suo compagno di squadra che lo tallonava, tagliò il filo di lana, ma tornò immediatamente a soccorrerlo. Gli costò molti giorni d’ospedale: il campanello d’allarme lo indusse a chiudere la carriera, almeno ad alto livello, perch̀e poi continùo a divertirsi correndo quei cross che erano sempre stati la sua passione, il suo pallino e la vittoria pìu emozionante la colse probabilmente in una fredda giornata di met̀à gennaio del 1961 al Campo Scuola, a 51 anni appena compiuti. 

Si laureava, per la trentesima volta almeno, campione provinciale, stavolta nella categoria seniores, ma, accanto a lui, sgambava Giangiacomo, il figlio sedicenne che andava a cogliere il titolo nella categoria juniores. Accoppiata vincente, che però gli fece capire che il momento di smettere era arrivato. La successione era assicurata. 

Non avrebbe però mai rinunciato all’odore acre degli spogliatoi, alla spasmodica attesa di una partenza, all’emozione di un arrivo gomito a gomito, almeno in seconda persona, al fianco di qualcuno che dalla sua enorme esperienza avrebbe potuto imparare a vivere da sportivo e da uomo. 

Atleta di grande spessore non solo tecnico e agonistico, soprattutto morale, poi dirigente ed allenatore capace di far crescere fior di campioni e di tenere insieme tutti i pezzi di una squadra anche nei momenti più duri.

Tanti i successi eclatanti, ma quelli cui va il pensiero ed il ricordo più bello, ogni anno a gennaio, si rifà alle tre vittorie nella “Cinque mulini”, il cross più bello e più antico, quello da vincere una volta nella vita. E al “Cio” il colpaccio riuscì a ripetizione, corredato poi da molti piazzamenti da podio negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando sul terreno spesso fradicio, infido e scivoloso di San Vittore Olona si davano appuntamento i corridori più forti del continente. Era la “sua” corsa proprio perchè dura, difficile da interpretare tecnicamente, quella che si vince solo se si possiede più forza, più volontà, più resistenza di tutti gli altri, e spesso sono parecchie centinaia. Ma il “muster” com'era uso chiamarlo Gianni Brera negli anni in cui le sue cronache erano rivolte all'atletica prima che al calcio, non si contentava di vincere ogni anno a San Vittore: non c'era gara della stagione invernale che non lo vedesse protagonista, a Pola o a Cavaria (tre volte dominò la “Sette campanili”), a Lucca o Bellinzona, Capodistria o alla “Coppa Carnevale” di Viareggio come a Marsiglia o al Giro Internazionale di Chiasso o alla Traversata Notturna di Piacenza.

Italia è rimasto un punto fermo nell’atletica cremonese. E’ l’atleta che ha portato la saggezza pacata dell’uomo venuto dalle campagne e dalla terra in un mondo tanto più grande di lui, che si è messo alle spalle, sui percorsi più duri e più famosi intere generazioni di mezzofondisti, sempre con la consapevolezza di aver portato un sesquipedale mattone alla costruzione dell’edificio dello sport non solo cremonese, ma del mondo intero dell’atletica italiana. Quella sua antica voglia di battersi per la medaglietta, quel desiderio di apparire il più forte in una delle specialità maggiormente impegnative e faticose, ma senza mai farlo pesare ad amici e avversari, ne hanno fatto un simbolo per tutti i ragazzi affacciatisi all’atletica e infatti, proprio nella corsa di mezzofondo i nostri delle generazioni successive alla sua si sono sempre distinti sulla scia delle sue prodezze. 

E’ vero, vinse moltissimo, ma gli restò sempre una certa insoddisfazione, il dubbio di non aver dato e conosciuto, per cause e circostanze non sempre favorevoli, la misura esatta del proprio valore. Faceva l’operaio alla Cavalli e Poli, costretto a turni di lavoro che concedevano precarie possibilità di allenarsi adeguatamente, ma non ebbe mai neppure la tentazione di raccogliere le sue poche robe di atleta e metterle da parte una volta per sempre, quando i sacrifici, anche finanziari divennero sicuramente superiori alle soddisfazioni che l’atletica di quei tempi eroici poteva offrire. 

Toppo grande era il suo amore per lo sport! 

 

Cesare Castellani


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti