26 gennaio 2023

La Merla, il rito che caccia Gennaio. Propiziazioni canore in dialetto

Se vùm mìia a cantàa la Mèerla, fùm mìia bèl de galéte” “Se non andiamo a cantare la Merla, non  facciamo un buon raccolto di bozzoli”, si diceva con sentita convinzione nelle campagne della Bassa Padana. E tutti facevano del loro meglio perché questa tradizione riuscisse alla perfezione ed ottenesse gli auspicati effetti nella corale partecipazione ad un rito folklorico in cui il dialetto era (ed è) linguaggio elettivo, portatore ed evocatore di un’aurea dalla forte connotazione identitaria.  

Oltre ad essere cantato, quello ‘Merla’ è un dialetto narrato attraverso la poesia, presente nel  filone lirico di Melchiorre Bellini e nella produzione di Alfredo Pernice, il quale dedicò al nero e mitico pennuto un’intera composizione, pubblicata sulla rivista “Cremona”, nel gennaio-febbraio 1941.  In questi versi il poeta ci parla di un generale chiamato Merlo, e di un Gennaio che non si decideva mai a por fine ai rigori stagionali, così come di una Merla bianca avente tale colore non per caratteristiche albine d’origine, ma a causa dello spavento procuratole dal primo mese dell’anno. Questi versi sono la testimonianza della pluralità creativa del folklore, che si propone e si manifesta in un modellamento ininterrotto di varianti nel ricordo e nella qualità di alcuni giorni ‘canonizzati’ in chiave popolare dall’immaginario collettivo.

La leggenda narrata dal poeta Alfredo Pernice

Il generale Merlo, il Po gelato e la Merla bianca dallo spavento

La Merla

29-30-31 genàar

El generàal Mèerlo l’àa traversàat

el Pòo, zelàat (da pasàagh sö i canòon)

cun néef e frèt, da spacàa fìn le piàante:

e, per trìi dé, gh’è pasàat sö suldàat.

…A töti ghe zelàava fin el nàas.

…Insóma, i sìiva pö da che pàart tràas.

Il generale Merlo ha attraversato

il Po gelato (da fargli passare sopra i cannoni)

con neve e freddo, da spaccare fino le piante:

e, per tre giorni, ci sono passati sopra i soldati.

…A tutti si congelava addirittura il naso.

…Insomma, non sapevano più da che parte sbattere la testa.

Che frèt, che zéel, che néef, e che rüìna!

Invèerno de danàat. E cu’l Genàar

che finìs màai. Sèemper calìif e brìna.

El Pòo töt biàanch, e i nìigoi serenéi.

Sóolo fümàava (in més a i ciaruléen)

Le bùche di cavàj…e d’ì caméen.

Che freddo, che gelo, che neve; e che rovina!

Inverno da dannati. E con il Gennaio

che non finisce mai. Sempre brina e brina.

Il Po tutto bianco, e le nuvole cinerine.

Soltanto fumavano (in mezzo ai lumicini)

le bocche dei cavalli e dei camini.

Na bèla mèerla (biàanca da’l spavèent)

ciapàada in més a la turmèenta e a’l vèent,

sperdìida in töt chèl frèt e che ‘l infèerno,

la s’è salvàada dèent in de ‘n caméen

de na caséta pèersa in rìiva al Pòo:

e…la s’è mìsa a’l  cùbi töt l’invèerno.

Una bella merla (bianca per lo spavento)

presa in mezzo alla tormenta e al vento,

sperduta in tutto quel freddo e quell’inferno,

si è salvata in un camino

di una casetta sperduta sulla riva del Po:

e …si è messa al riparo tutto l’inverno.

Sóola, afamàada, alméen la se scaldàava.

Per la gràan séet, la becugnàava néef;

e per mangiàa, la biasügàava biöm.

Óo quàanti dé, l’éera stàta al scüüri e al föm

sèen da per lée! Che vìta pòoch aléegra.

…Quàan’ l’è vegnìida fóora, l’éera néegra.

Sola, affamata, almeno si scaldava.

Per la gran sete, beccava la neve;

e, per nutrirsi, mangiucchiava polvere di legno, la tarlatura.

Oh  quanti giorni è rimasta al buoio e al fumo

Sempre da sola! Che vita poco allegra,

…Quando è uscita, era nera.

La versione di Pernice inserisce una circostanza militaresca alla leggenda del contrasto fra l’impertinente pennuto che si prese gioco di un mese ormai giunto agli ultimi sgoccioli,  ed un Gennaio permaloso e vendicativo che punì le smancerie della Merla facendosi prestare alcuni giorni dal dirimpettaio Febbraio. Così esso venne a costringere il pennuto, allora bianco, a rifugiarsi in un  camino, dal quale sarebbe uscito, dopo tre giorni, nero come la notte. Nella tradizione cremonese, insieme a questa leggenda, ve sono altre tre, che vengono riportate da Giampaolo Dossena nella sua <<Guida a una Cremona leggendaria misteriosa insolita fantastica>>.

Nella prima, si racconta che la Merla fosse una vecchia che voleva sposare un giovanotto; per meritarselo essa stette nuda quei tre giorni sul tetto; al terzo giorno il giovane corse da lei e la trovò stecchita.

Nella seconda, si dice che il Merlo e la Merla fossero due sposi novelli, che volevano tornare a Cremona; essi dovevano attraversare il Po in barca; ma il grande fiume era gelato. Gli sposi aspettano il 29, aspettano il 30, aspettano il 31; per l’impazienza provano ad attraversare il fiume con un ninsòt, una slitta; la crosta cede, i due muoiono annegati. 

L’ultimo riferimento al nome fascinoso ed inquietante della Merla riguarda la storia di un cannone provvisto della stessa denominazione ornitologica, che i francesi fecero transitare, nel 1510, sul Po ghiacciato e che pare si fosse poi inabissato.

Va precisato che i temi delle leggende riguardanti la Merla del mito non sono presenti nei testi delle canzoni tradizionali che verranno cantate nei classici trìi dì de la Mèerla, il 29-30-31 gennaio o il 30-31 ed il 1° di febbraio, in molti paesi del Cremonese. In queste canzoni vi  sono incisivi riferimenti al rinnovo della natura, che rimandano in modo manifesto, o attraverso metafore,  all’approccio amoroso fra giovani maschi e giovani femmine, e che confermano tenere promesse nella linfa  perpetua della vita.

Interessanti sono i prestiti e i contagi avvenuti fra melodie presenti in un areale italiano molto vasto; melodie che sono state come selezionate dal piacere canoro popolare per entrare a far parte della tradizione locale della Merla. 

I brani ‘cristallizzati’ dal folklore in territorio cremonese sono:

1) Trà la rùca in més a l’èera (‘Butta la rocca in mezzo all’aia’);

2)  La culumbìna biàanca (‘La colombina bianca’);

3) Bèl uzelìn de’l bòsch (‘Bell’uccellino del bosco’);

4) Chèl uzelìn che càanta in turezéla (‘Quell’uccellino che canta in  torricella’);

5) L’àaqua de’l Travacòn ( l’acqua del Travacòn ).  

Il rito viene concluso dalla mascherata del “contrasto fra Martino e Marianna”,  un brano ‘a dispetto’ che un  tempo ragazzi e ragazze dentro e fuori le stalle si rimandavano a vicenda, e che nel mantovano e sull’Appennino bolognese veniva cantato per san Martino, l’11 di novembre. 

La Merla dai multiformi accenti

Ogni campanile suona le proprie varianti

Va detto che l’ordine di presentazione delle canzoni della Merla non è identico nei vari luoghi, e che non tutte le stesse lezioni vengono eseguite insieme, così come  i testi non sono mai perfettamente identici passando da una località all’altra. Noi abbiamo cercato di creare una sorta di sincretismo letterario fra le varianti di Soresina e di Crotta d’Adda, privilegiando della prima versione le componenti strutturali e della seconda le assonanze dialettali. 

Il testo della prima canzone, dal titolo ‘la Mèerla’, nome eponimo dell’intero rito, lo abbiamo trascritto così:

                                                                                    La Mèerla

Trà la rùca en méza a l’èera

se gh’è nìigul s’enserèna

Volilela volilela

Volilela volilà.

Getta la ròcca in mezzo all’aia

se c’è nuvolo si rasserenerà

La brügna l’è fiurìida 

e tüti i la remìira

Volilela volilela

Volilela volilà.

La prugna è fiorita

e tutti la rimirano.

La brügna la fa el fióore 

e tüti i fa l’amóore.

Volilela volilela

Volilela volilà.

La prugna fa il fiore

e tutti fanno l’amore.

La brügna la stà in bròca 

e tüti i sé ripòoza.

Volilela volilela

Volilela volilà.

La prugna rimane vigile

mentre tutti si riposano.

La brügna l’è cascàada 

e tüti i l’àa ütàada.

Volilela volilela

Volilela volilà.

La prugna è cascata

E tutti l’hanno aiutata.

Camìiza ricamàada

la metaròo in bügàada.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Camicia ricamata

la metterò nel bucato.

Farùm na lisiàada 

ma bèen insaunàada.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Faremo una lisciviata

Ma ben insaponata.

‘Ndarùm a rezentàala 

en de na funtàana ciàara.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Andremo a risciacquarla

in una fontana chiara.

‘Ndarùm a slargàala 

‘n de ‘n bèl giardìin de i fióori.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Andremo a stenderla

in un bel giardin di fiori.

‘Ndarùm a ripiegàala 

a l’óombra de l’amóore.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Andremo a ripiegarla

all’ombra dell’amore.

‘Ndarùm a saràala 

cu na ciavéta d’òora.

Volilela volilela

Volilela volilà.

Andremo a serrarla

con una chiavetta d’oro.

La seconda classica lezione è quella della Colombina bianca, il cui testo parla del progressivo avvicinamento del volatile ad una morte nell’acqua, in questo caso nell’Adda, in un volo verso una morte da considerare come metafora di una più ampia unione col Creato, verso un amore viscerale più ampio e assoluto, considerato come la risposta ad un amore materiale non ottenuto, di un amore e di una vita che verranno rimpianti da parte di tutti. E’ come il segnale di un  contrappasso,  l’avvertimento fatto proprio dal canto collettivo nei confronti del pericolo di un annientamento esistenziale. E’ come se venisse dichiarato pubblicamente che vi è solo la morte pari alla condizione di una  vita privata di percorsi affettivi. Da qui la ricerca, il bisogno nella stagione veniente, nella primavera, di trovare, come nella canzone precedente della Merla, l’unione non con morte, ma con la vita, con l’amore.                                                    

La colombina bianca

La colombina bianca sa ben volar

volilela sa ben volar.

La vola in sö la bròca la donderà

volilela la donderà.

Vola sopra il ramo, dondolerà

volilela, dondolerà

La vola  in mezzo al prato la becherà

volilela la becherà.

Vola in mezzo al prato, beccherà

volilela, beccherà.

La vola in riva all’Adda, la beverà.

Volilela la beverà.

Vola in riva all’Adda, berrà.

Volilela, berrà.

La beve alla fontana, la va pü jà.

Volilela la va pü jà.

Beve alla fontana, non va più via.

Volilela non va più via.

La vola sul palazzo la farà el gnàal.

Volilela la farà el gnàal.

Vola sul palazzo, farà il nido.

Volilela, farà il nido.

La rìiva sü la Torre la suonerà.

Volilela la suonerà din don dan.

Volilela riposerà.

Arriva sulla Torre, suonerà.

Volilela, suonerà din don dan.

Volilela, riposerà.

La vola in mezzo all’Adda la negherà

Volilela la negherà.

Vola in mezzo all’Adda, annegherà.

Volilela, annegherà.

La colombina è morta si piangerà.

Volilela si piangerà.

l terzo brano del rituale, Bèl uzelìn de’l bòsch, è certamente il testo che ha trovato più largo seguito e più intense tracce nella memoria collettiva. La dimostrazione più evidente è che lo si canti ovunque, con una trama dove l’italiano s’intreccia col dialetto creando come un rustico gramolot linguistico.

Chèl uzelìin de’l bòosco, rataplàm (da ricantare tre volte)

dove sarà volato, rataplàm?

In bràacio a la mìia bella, rataplàm.

Che còoza il gh’àa portàato, rataplàm?

Na leterìna sigilàada, rataplàm.

Che còoza gh’éera scrìto, rataplàm?

Ma di sposar l’aibella, rataplàm.

Mì l’ò sposata ieri, rataplàm

ed ora son pentito, rataplàm.

Lo studioso Roberto Leydi ci segnala una versione ‘risorgimentale’  di questa canzone raccolta in provincia di Novara, ma che è presente e conosciuta in quasi tutta Italia. Anche qui vi è l’amorosa ‘lettera insigillata’ portata  dall’uccellino del bosco a una ragazza, per comunicare alla stessa una richiesta di matrimonio. L’uccellino vola <<in braccio a Garibaldi>> ed inserisce l’Eroe dei due mondi nella canzone come a suggellare il patto d’amore che si apre con l’inizio della storia della nuova Italia. 

A riportarci al clima tradizionale padano dei giorni della Merla, ai suoi riti e alla potenza evocativa delle sue canzoni rituali è un richiamo poetico: la lirica della poetessa Franca Piazzi Zelioli , dal titolo Falò de Genàar, ‘Falò di Gennaio’.                                                        

Falò de Genàar

Èeeh…vvvùm!

Cùma ‘n bìs che, spaürìs,

el se inturciùla ai bròch

sèch e pelàat de na piàanta,

el fóoch

‘l intòorcia i masóoi

de’l falò

e dèent in de l’èera

‘l è töt en lüzùur!...

Eeeh …Vvvum!

Come un serpente che, smarrito

s’avviluppa ai rami

secchi e nudi di un albero,

il fuoco, avvolge le fascine

del falò,

e nell’aia

è tutta una luce!…

S’ciòpule e stéle

Le se mèsc’cia in de ‘l céel

frèt e pulìit de genàar

intàant che le fiàme

le se svàalsa, le bàla,

le càanta le véce cansòon

de la mèerla:

antìighe paròole

per en ciòp de amìich.

Faville e stelle

si confondono nel cielo

gelido e terso di gennaio

mentre le fiamme

si alzano, danzano

cantano le vecchie canzoni

della merla:

antiche parole

per un gruppo di amici

Dèent a’l fugòon

Se ghe sbàt dulùur…paüüre…

delüziòon…cativéeria…

Là in àalt, la Vécia,

infilsàada in sö ‘l bròch püsèe drìt,

la bambàna,

bulseghèent la s’ciupega,

e la brüüza!!

Dentro il gran fuoco

si gettano dolori…paure

delusioni…cattiverie…

Là in alto, la Vecchia,

infilzata sul ramo più dritto

dondola

crepitando tossisce,

e brucia!

Brüüza o bröta veciàsa!

Brüüza o bröta pajàsa!

E dèent in de’l fóoch

Pòorta cun tè

Le ròbe bröte

de töti i nos’ dé!

Brucia, o brutta vecchiaccia!

Brucuia, o brutta pagliaccia!

E dentro il fuoco

porta con te

le brutture

di tutti i nostri giorni!

Brüüza!

Brüüza!

Brüüza!

Àan el vèent

el se mès’cia udulèent

a le lìingue de fóoch

che piàan piàan la se sbàsa,

le se scüürta,

le móor…

Anche il vento

si unisce ululando

alle lingue di fuoco

che pian piano s’abbassano,

s’accorciano

muiono…

Adès, intùurno a’l grazée

j óc i se incàanta;

a’l calùur se slóonga le màan…

Pàarla nisöön.

Se pèert ne la nòt mìla penséer:

Saràal püsèe bèl el dumàan?

o saràal cùma jéer? -

Adesso, intorno alle braci

gli occhi si incantano;

al calore si tendono le mani…

Nessuno parla.

Si perdono nella notte mille pensieri:

Sarà più bello il domani?

O sarà come ieri? -

Agostino Melega


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