14 dicembre 2021

“Tucàt da Dio”. La disabilità come colpa e l’ipocrisia contemporanea che non accetta il diverso pur esaltandolo

“I figli del peccato”: questa espressione usata per denominare un dipinto di Jochin Sorolla, il grande pittore spagnolo, mi esplose nella testa come una fucilata, anche perché mi riconobbi in quei bambini con le stampelle che volevano fare il bagno in riva al mare. Alcune settimane fa, mentre gustavo un bel servizio televisivo su Sorolla, fui colpito da un quadro e dal titolo dato dal commentatore. Breve ricerca in rete. Trovai il dipinto, ma col titolo “Triste eredità” (1899): bambini disabili, accompagnati da un religioso sulla spiaggia a fare il bagno. Scriveva l’artista: "Una mattina ero impegnato a fare uno schizzo dei pescatori di Valencia, quando vidi in lontananza, vicino al mare, un gruppo di bambini nudi, a breve distanza da un solo prete. Erano bambini dell'ospedale di San Juan de Dios , i detriti della società, ciechi, pazzi, disabili o lebbrosi. Inutile dire che la presenza di quegli sfortunati mi ha fatto una dolorosa impressione. Non ho perso il momento e ho cercato e ottenuto l'autorizzazione necessaria dal direttore dell'Ospedale per lavorare sul posto e copiare quella scena dalla vita". In rete era però scomparso il titolo che legava l’invalidità alla colpa, una concezione vecchia di millenni. 

Allora mi venne alla mente il detto delle culture montanare e contadine, che alla vista di uno zoppo, un gobbo o disabile in genere, lo etichettavano come: “Tucàt da Dio”. La disabilità come punizione divina di una colpa sua o ancestrale. E mi venne il desiderio di fare una piccola ricerca sulla disabilità per dedicarla a quel bambino, cun la gàmba sifulìna (per la poliomielite, la cosiddetta “paralisi infantile”, quando non c’erano i vaccini antipolio), che a Isola Dovarese, negli anni ’40 e inizio anni ’50, percorreva le strade del paese e gli argini dell’Oglio a piedi o in bicicletta, giocava con tutti, aveva un sacco di amici, ma ogni tanto incrociava qualche “Franti”, che lo prendeva in giro o magari gli faceva lo sgambetto per farlo cadere, o anche gli dava un pugno, fuggendo subito dopo, deridendolo. Un insulto atroce, questo, uno dei dolori maggiori della sua infanzia tutto sommato giocosa. Ma anche il sentire sussurrare al suo passare un caritatevole “poverino” non era facile da accettare.

Perché ricordargli la sua “mnenomazione”, mentre lui, in realtà, era impegnato a vivere e a giocare dimenticando il suo handicap? Ricorderà sua madre: “Quante volte lo vidi in pericolo di farsi male! ... in piedi sul tavolino là in cortile o appeso con le braccia ad un alto ramo di una pianta che era al limitare del gioco di bocce ... o sui pioli di una scala”. Un bambino come gli altri, dunque, molto vivace e spericolato. E a volte anche molto birichino, come quella volta che trascrisse su un foglio una “ode escrementizia” dedicata alla capitale del Vesuvio, firmandola con nome e cognome, e fatta girare sotto i banchi della IV elementare, finché una compagna “spiona” l’aveva consegnata alla maestra: “Napoli, Napoli, bella città / merda di qua, merda di là. / In ogni cantuccio / c’è uno stronzuccio. / In ogni contrada / c’è una cagata. / E nella piazza municipale / c’è una merda fenomenale”. Per punizione, l’insegnante “scandalizzata” – ma ridendo di nascosto sotto i baffi – l’aveva mandato in ogni classe per farla leggere a tutte le maestre. 

Si potrebbe pensare che sia stata l’ignoranza della “cultura contadina”, a indicare l’invalido come “tucàt da Dio”, portatore di qualche deformità morale o colpa primigenia, che si manifesta nella punizione provvidenziale, con l’handicap come evidenza corporale di una stortura morale. In realtà ben più autorevoli sono le origini del “pregiudizio” contro il portatore di diversità. Nella Bibbia è Dio stesso che parla a Mosé: «Parla ad Aaronne e digli: "Nelle generazioni future nessuno dei tuoi discendenti che abbia qualche deformità si avvicinerà per offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né il cieco, né lo zoppo, né chi ha una deformità per difetto o per eccesso, o una frattura al piede o alla mano, né il gobbo, né il nano, né chi ha un difetto nell'occhio, o ha la rogna o un erpete o i testicoli ammaccati.» (Levitico, 21:17-20). 

Nella tradizione talmudica, si fa più esplicita l’indicazione della disabilità legata al peccato sessuale che l’ha generata, un lascito che è stato assunto anche da tanta “cultura” cristiana (se Dio è onnipotente e sommamente giusto, la deformità deriva da una colpa dell’individuo o della comunità): “Chi compie l’atto sessuale alla luce di una lampada riceverà figli epilettici. Se un uomo possiede sua moglie durante i giorni delle mestruazioni i suoi figli saranno colpiti dalla lebbra. Perché i bambini nascono paralitici? Perché i loro genitori capovolgono il loro tavolo (cioè, la donna sopra e l’uomo sotto). Perché nascono muti? Perché loro si baciano in quel posto. Perché nascono sordi? Perché loro parlano durante l’atto sessuale. Perché divengono ciechi? Perché si guardano in quel posto”.

Capro espiatorio l’handicappato era ritenuto nella Grecia arcaica, essendo frutto dell’ira divina e quindi mandato alla comunità come castigo. Di solito i “diversi” venivano uccisi o lasciati morire, mentre alcuni venivano “conservati”, per essere immolati per placare la divinità in situazioni difficili, seguendo una codificata ritualità. Il disabile veniva trascinato fuori dalle mura, picchiato sette volte sui genitali e poi messo vivo sul rogo, e le sue ceneri disperse in mare. E come poteva la cultura classica della polis, in una società tesa alla perfezione del corpo, accettare il brutto, il deforme, l’invalido? Nella tragedia classica Edipo, che finì per uccidere il padre e giacere con sua madre, era “piede gonfio”, figlio di Laio, “sbilenco”, e nipote di Labdaco, “zoppo”: una stortura fisico-etica che si tramandava di generazione in generazione.

Non diversa l’esclusione dell’handicap nel mondo romano, a partire dalle XII tavole: “Cito necatus insignis ad deformitatem puer esto”: sia subito ucciso il neonato con grave deformità (Legge 10). E lo stesso Seneca, che pure ci ha lasciato pagine memorabili sulla fratellanza umana, ebbe ad affermare: “soffochiamo i feti mostruosi, e anche i nostri figli se sono venuti alla luce minorati e anormali, li anneghiamo , ma non è ira, è ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani” (De ira). 

Non voglio continuare in questo accenno di storia della disabilità, che ci rende tutti tristi, e rimando a letture ben altrimenti complete, come gli studi di Vito Mancuso, Matteo Schianchi e Massimo Fioranelli, che tutti dimostrano che la storia della disabilità è la mappa delle più irrazionali e ataviche paure dell'uomo. Ciò che mi preme, invece, è fare il punto sulla nostra, attuale, cultura della disabilità. Si sono fatti passi in avanti immensi, spesso codificati in leggi, anche solo rispetto a qualche decennio fa. Ma è così diversa la sensibilità diffusa? E’ stata accettata la “diversità”? Scrive Roberto Cescon (Disabile chi? La vulnerabilità del corpo che tace, 2020): “Il disabile è lo scarto dalla normalità che scatena il tuo timore radicale poiché rivela la precarietà della vita sotto l’illusione della stabilità, che supponi sia la norma.”.

Di fatto, ancora troppo spesso il rifiuto della diversità si nasconde dietro una montagna di ipocrite buone intenzioni, di pietismi, sia nella fiction sia nei servizi che fanno presa sulla cosiddetta “realtà”. Per fare accettare l’handicap, non si presenta il caso di un disabile e dei suoi care giver alle prese con il quotidiano (la difficoltà di alzarsi, di gestire i bisogni corporali, la fatica nel non farsi male, di non riuscire a comunicare, a nutrirsi, a pulirsi ecc.), ma si spettacolarizza la vita dei super-handicappati, “quelli che ce l’hanno fatta alla grande” perché dotati di particolari capacità, si arriva alla “estetizzazione dei disabili”. Si pensi agli eroici  esempi di Bepe Vio, Alex Zanardi, Ezio Bosso, che hanno contribuito tanto nella lotta contro pregiudizi e discriminazioni. Ma anche nel loro caso, l’accettazione dell’handicap viene negata. Come dire: che me ne faccio di un “handicappato normale”? Io voglio presentare solo quelli che hanno “super-poteri”. 

Si pensi al film “Wonder”, campione d’incassi, che è stato presentato come pedagogico, in quanto insegna ad affrontare e accettare la diversità. In realtà il bambino viene allevato ed educato da una madre straordinaria, e poi si rivelerà un allievo eccezionale per sensibilità, cultura e intelligenza. E se avesse avuto una madre come tutte le altre, se avesse perduto saliva o catarro dalla bocca, e se fosse stato un poco “tonto”? sarebbe stato accettato? Si pensi anche a due serie che vanno per la maggiore, oggi, in TV, “Blanca” e “The Good Doctor”. Anche qui disabili con superpoteri, non “normali”. Ti mostro un personaggio afflitto di grave deficit, ma a patto che abbia almeno una dote eccezionale. Nel caso di Blanca l’udito le permette di risolvere casi polizieschi intricatissimi, collegati, in genere, a problematiche sociali. E’ bella, intelligente, pluricorteggiata, a contatto di casi umani e sociali, che lei contribuisce a salvare. Il protagonista di The Good Doctor è autistico e affetto dalla “sindrome del savant”, ma che acume di diagnostico, che chirurgo eccezionale!

A mio avviso, occorre domandarsi quale passaggio mentale, emotivo, culturale è necessario per affrontare la “disabilità normale”, quella vissuta giorno per giorno, ma  soprattutto, notte dopo notte, con la gestione dell’handicap nelle difficoltà vere dell’esistenza individuale e familiare: intralci nel cammino, scale invalicabili, ascensori stretti, strade e marciapiedi scassati, la paura di farsela addosso, l’ignoranza e il pregiudizio diffuso.

La disabilità è una condizione limite che pone a scacco tutte le rappresentazioni “ordinarie” dell’esistenza. Per porre in crisi i quali è necessario che accada l’evento, in ognuno noi, di un diverso sguardo sulla realtà. Occorre fare nostra l’esperienza vissuta del buio, dell’immobilità, della deformità, del silenzio. Superare la pietà e la paura. Scrive ancora Cescon:  “Educherai il tuo immaginario, se farai in modo che l’idea di unità della specie umana non cancelli l’idea di diversità e viceversa. Il terrore della disabilità è il terrore dell’altro da sé, che abita dentro di te”. Occorre che ogni soggetto si senta temporay abled. Ma continui a vivere come se nulla fosse, una vita così, senza saperne niente avanti, come dice il passeggere di Leopardi. 

Non esistono le categorie (abile/disabile; razionale/irrazionale, sano/matto, ecc.), esistono gli individui, nella loro singolarità, con la propria storia, con pregi e difetti. Secondo Salvatore  Natoli, studioso del dolore, ogni soggetto è “l'assolutamente singolare e come tale impredicabile. Può essere solamente indicato e per questo è addirittura ineffabile: il solo nominarlo lo generalizza e perciò lo tradisce”. Il difficile è saper entrare in relazione con l’Altro o l’Altra aperti all’imprevedibile. 

Quel ragazzetto di Isola Dovarese – e a Cremona del “Caffè orologio” in Piazza S. Ilario – cun la gàmba sifulìna, che era di fatto escluso da tutti i giochi in cui si doveva correre, e ne soffriva terribilmente, questa conquista filosofica e psicologica non la conosceva. Si limitava a vivere la sua crescita, la sua formazione, come tutti gli altri, tra vittorie e sconfitte, tra timori e scelte coraggiose, tra delusioni e conquiste. Arrivando anche a riderci sopra, e a prendersi in giro. Ha saputo far suo l’atteggiamento di Carlo Altoviti, alla conclusione delle “Confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo. Giunto anche lui ad essere ottuagenario, a volte dice a se stesso: “mi passa sulla fronte una nuvola di melanconia; ma la cancello tosto colla mano e riprendo la solita ilarità”.

Carmine Lazzarini


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commenti


Giuseppina Fieschi

14 dicembre 2021 20:15

Bravissimo Carmine. Ho apprezzato molto il tuo post. Cari saluti anche da G. Paolo.