27 ottobre 2021

Garibaldi a Crema, la folla e i massoni cremaschi

Ogni tanto i cremaschi si ricordano della venuta di Garibaldi a Crema nel 1862 e ne nascono commemorazioni, conferenze, pubblicazioni. Anche dalle nostre parti il “garibaldinismo” non passa mai di moda. Soprattutto dieci anni fa, nell’ambito delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, le iniziative sono state in questo senso particolarmente numerose e significative. Basti citare il restauro del monumento a Garibaldi, situato nell’omonima piazza cremasca, opera di Francesco Barzaghi. Inaugurato nel 1885, tre anni dopo la morte dell’Eroe dei Due Mondi, il monumento è stato infatti restituito alla città, dopo il restauro operato da un apposito comitato, il giorno 12 novembre 2011. La presenza di Garibaldi a Crema continua quindi ad appartenere alla memoria collettiva locale in modo stabile e duraturo. Anche se, pure da noi, si tende per comprensibili ragioni contingenti, di natura politica e culturale, ad attenuare le forti posizioni anticlericali del nizzardo e le sue violente esternazioni contro il papato, il clero e il cattolicesimo in generale. Ad esempio, fa una certa impressione rileggere, nella sua totale inattualità, il suo primo romanzo “Clelia - Il governo dei preti”, non certo un capolavoro letterario, piuttosto noioso ma indicativo di quei contrasti. Insomma, Garibaldi va sempre bene, però opportunamente adattato alla contesto attuale.

Quando nell’aprile 1862 Giuseppe Garibaldi passa da Crema, la situazione italiana è ormai molto diversa da quella della spedizione dei Mille e della conquista del Meridione, dei plebisciti per le annessioni dell’Italia centrale e della proclamazione del Regno d’Italia. Nell’arco di soli due anni è scomparso Cavour, si sono archiviate le ultime velleitarie pretese politiche repubblicane, si sta concludendo con la necessaria severità la fase più acuta della lotta al brigantaggio, si sta completando il progetto, iniziato una decina di anni prima con le leggi Siccardi, del ridimensionamento delle strutture e dei poteri ecclesiastici su tutto il territorio nazionale (lo Stato pontificio è stato ridotto al solo Lazio, difeso ormai soltanto dagli zuavi francesi e dagli altri corpi mercenari papalini). Soprattutto, si stanno ristrutturando tutte le istituzioni politiche e l’intera pubblica amministrazione del nuovo Stato italiano. Restano da liberare Roma e Venezia ma intanto, sul fronte interno, i governi della Destra storica attuano una totale riorganizzazione di ordinamenti, strutture, procedimenti, con un fortissimo impegno in termini di risorse umane, materiali ed economiche. Un’impresa non inferiore a quella compiuta sui terreni di guerra negli anni precedenti.

E’ in questo scenario che la dirigenza liberale nazionale consente, a un Garibaldi ormai superato dagli eventi politici e avulso dal contesto dei poteri costituiti, di intraprendere il proprio viaggio “in cerca di fucili”. L’obiettivo della raccolta di armi sfuma ben presto in una passerella rievocativa delle imprese garibaldine e la visita alle città italiane, più che ad armare il futuro, induce a celebrare il passato. Si ripete spesso “o Roma o morte” e in effetti su Roma si appunteranno successivamente i due principali tentativi di liberazione da parte delle formazioni di ispirazione garibaldina. Ma saranno proprio i gravi fatti di Aspromonte, pochi mesi dopo, e il massacro di Mentana, alcuni anni più tardi, a chiarire definitivamente che il tempo delle avventure volontaristiche, per quanto eroiche e meritevoli di ammirazione, è ormai terminato e che la partita per ottenere Venezia e poi Roma si giocherà su tavoli ben diversi.

Tuttavia, il consolidamento di una cultura patriottica, di forte impatto emozionale e di notevole richiamo popolare può giovare parecchio ai governi in carica, che necessitano a tal fine di opportuni mezzi di influenza, comunicazione e propaganda. Di questa nuova fede nazionale di massa, che sta sostituendo l’impegno civile alla devozione religiosa, Garibaldi è l’araldo ideale, con il suo messianismo eroico, la sua oratoria dalla presa immediata, la sua capacità di coinvolgimento emotivo delle folle. Ben vengano quindi, per la nuova classe politica nazionale, il suo concetto di nazione armata, il suo sollecitare l’esercizio costante delle armi al posto dei breviari, il suo promuovere la creazione di luoghi dedicati al perfezionamento di tale esercizio, soprattutto da parte dei giovani, invitati a “lasciare il turibolo per la carabina”. Garibaldi è uno dei principali propugnatori di un modello laico di gioventù che fa subito presa tra le nuove generazioni, un modello attitudinale e comportamentale basato su un nuovo culto, quello della patria guerriera, e su un nuovo credo, quello della virilità armata. Per i ministeri della Destra storica sono tutti concetti molto funzionali all’esigenza di “fare gli italiani”, una volta fatta (o quasi, siamo nel 1862) l’Italia. Da qui l’inaugurazione da parte di Garibaldi, con l’avallo del Ministero degli Interni e quindi con il nulla osta delle varie Prefetture, di innumerevoli circoli per il tiro al bersaglio, di poligoni in cui le armi da fuoco divengono uno dei cardini della nuova religione laica popolare, quella del sentimento nazionale e dell’eroismo patriottico.

Del resto, la cosa principale che Garibaldi compie a Crema, tra brindisi, discorsi dal balcone e acclamazioni di folla, è proprio l’inaugurazione del nuovo tiro al bersaglio, uno dei numerosi poligoni inaugurati da Garibaldi in quel viaggio. E’ interessante il resoconto di questa visita contenuto, secondo don Giuseppe Degli Agosti, ricercatore di storia locale, in uno stampato redatto poco dopo la venuta di Garibaldi a Crema e pubblicato, sempre secondo questo studioso, dalla Tipografia Campanini di Crema, con testo ad opera del prof. Paolo Braguti, sacerdote e Ispettore Scolastico, e del dott. Giuseppe Zambellini, Segretario della giunta comunale. Il fascicolo, intitolato “La giornata di Garibaldi a Crema”, è stato ristampato nel 2011 dalla locale Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e dalla Associazione L’Araldo di Crema, nella versione del 1882 edita da Giacomo Cazzamalli Editore. È da questo testo che sono tratte molte delle citazioni che seguono.

La mattina del 10 aprile 1862 perviene al Sindaco di Crema, il dott. Angelo Cabini, un telegramma che annuncia l’arrivo di Garibaldi in città proprio in quello stesso pomeriggio. Subito il Sindaco, che tra l’altro è a casa ammalato, fa stampare un manifesto di benvenuto e fa organizzare in fretta e furia una degna accoglienza per l’illustre personaggio: “L’eroe di Caprera abbia tra voi un’accoglienza degna del suo gran nome e delle generose sue gesta. Le manifestazioni di gioia mostrino che nel vostro cuore è viva e imperitura la riconoscenza ai Grandi che hanno consacrata la loro vita per l’acquisto della nazionale indipendenza”. Il centro cittadino e i previsti percorsi di visita vengono velocemente addobbati in modo festoso e ci si mobilita per accogliere Garibaldi nel modo migliore. Una delegazione gli viene inviata incontro e lo raggiunge poco fuori Lodi, alla Fontana. Insieme ai figli Menotti e Ricciotti, Garibaldi giunge nel pomeriggio a Crema, osannato tra due ali di popolo.

C’è molta trepidazione quando, dopo aver ricevuto gli onori militari e il benvenuto dei reggitori locali, in particolare dell’assessore Faustino Branchi (il Sindaco resta a letto con la febbre), Garibaldi prende la parola. Si trova su uno dei balconi del Palazzo Municipale, dove una lapide ricorda ancora oggi quell’evento. Il suo discorso infiamma subito gli animi. Invita tutti a sostenere con forza e con coraggio la causa nazionale, a costruire l’unità sociale e la concordia tra gli italiani, aggiungendo che “Roma e Venezia mancano ancora all’unità nazionale, ma l’Italia sarà presto tutta libera. Frattanto bisogna addestrare i giovani alle armi e per questo si inaugurerà a Crema il Tiro a Segno. Ogni italiano dovrà saper bene usare un fucile o una carabina, e allora Roma e Venezia saranno nostre e l’Italia sarà riconosciuta come Nazione”. La folla reagisce a queste e alle altre affermazioni contenute nella sua arringa con un crescendo di entusiasmo popolare e di commozione collettiva. Paolo Braguti, incaricato della parte più significativa dei discorsi d’accoglienza, si rivolge all’insigne ospite e alla folla presente dicendo che “l’esempio di Garibaldi renderà gloriosa la gioventù” e incoraggia tutti a “lavorare, nel nome di Garibaldi e del Re, per un’Italia grande, unita e forte”. Il riferimento a Vittorio Emanuele II, in un simile momento, non è certo casuale, da parte di questo importante dirigente scolastico e uomo di notevole cultura. Il partito monarchico liberale moderato, a cui Braguti appartiene, è nel territorio cremasco parecchio forte e vanta esponenti molto vicini alla dirigenza torinese e alla Corte sabauda. Basti dire che, prima del monumento a Garibaldi nel 1885, Francesco Barzaghi scolpirà nel 1881 per la città di Crema il monumento a Vittorio Emanuele II. Anche questo monumento, gravemente lesionato da un attentato dinamitardo nel 1946, quindi rimosso e abbandonato a pezzi in un’area cortilizia di servizio del Museo di Crema per molti decenni, è stato restaurato da un apposito comitato e restituito alla città il giorno 7 settembre 2013.

La sera del 10 aprile, si svolge un banchetto in onore di Garibaldi e del suo seguito presso l’Albergo del Pozzo, dove il condottiero è ospitato. Garibaldi prende a più riprese, in quelle ore, la parola, con la sua tipica oratoria appassionata. Interviene su diversi argomenti, rispondendo con molta disponibilità ai suoi interlocutori. Ad esempio, sui precedenti contrasti tra Crema e Lodi (ma nuovi contrasti stanno nascendo con Cremona, dopo l’assegnazione di Crema a quella provincia), invita i cremaschi e i lodigiani alla concordia: “si tolga una vecchia ruggine, che rende discordi queste città sorelle; le gelosie devono scomparire, ogni italiano non deve avere che una sola bandiera”.

La mattina successiva, quella dell’11 aprile, tra le varie delegazioni cittadine che lo festeggiano e lo omaggiano, Garibaldi riceve anche quella del clero cremasco più “liberale”, guidata da Paolo Braguti, il quale sottolinea al Generale l’importanza di questa parte patriottica dei sacerdoti locali, censurando poi “il clero retrivo che difende una temporale signoria” con i suoi pretesi diritti e privilegi, “macchiando la religione cristiana”. In quel momento la diocesi di Crema, come molte altre nell’Italia post-unitaria, è senza vescovo. Pietro Maria Ferrè, succeduto a Carlo Giuseppe Sanguettola nel 1857 e già trasferito a Pavia nel 1859, non ha potuto prendere possesso di quella diocesi per i noti contrasti con il nuovo Stato italiano. È rimasto così teoricamente “amministratore apostolico” della diocesi di Crema, che però di fatto risulta vacante. Mons. Ferrè è coinvolto negli scontri fra i difensori di Antonio Rosmini, tra i quali si annovera, e i suoi accusatori, le “nere sottane loyolesche” che dalla Civiltà Cattolica, oltre ad attaccare il filosofo roveretano, affermano: “Da quando San Tommaso è apparso al mondo, non ha sofferto uno strazio simile a quello che gli è fatto patire da Monsignor Ferrè”. A Crema un sostenitore di Ferrè è don Carlo Polonini, studioso e sacerdote di grande cultura. Questa accesa disputa rosminiana-gesuitica terminerà solo diversi anni dopo, con Gioacchino Pecci, da poco insediato, e la sua “Aeterni Patris” del 1879, preludio alla “Post Obitum” emessa dal Sant’Uffizio nel 1887, che condannerà molte parti dell’opera rosminiana (nonostante ciò, Rosmini verrà beatificato nel 2007). Tutto questo per dire quanto anche a Crema fossero allora sentite le divisioni tra il clero (scarso) favorevole alla nuova nazione italiana e il clero (numeroso) ligio ai dettami di Mastai Ferretti e, soprattutto, del cardinale Giacomo Antonelli, vero reggitore dello Stato Pontificio e propugnatore della sua politica anti-italiana.

Dopo aver raccolto l’omaggio delle varie delegazioni cittadine, Garibaldi si reca a inaugurare il tiro a segno. Qui lo accoglie il presidente del nuovo poligono, Giovanni Tensini, che nel suo discorso inaugurale ricorda anche l’impegno dei molti volontari cremaschi: “Garibaldi è un continuo canto sulle labbra del nostro popolo. Volontari cremaschi si sono fatti onore a Varese, Como, Palermo, Napoli” aggiungendo che “per i giovani la carabina sia come una fida sorella e nelle esercitazioni abbiano l’occhio al centro e il cuore a Roma e Venezia”. In realtà, Tensini dimentica diversi esempi di volontarismo cremasco risorgimentale, a partire dai combattenti delle Cinque Giornate al sacrificio di Giovanni Gervasoni ad Ancona, ma forse sceglie soprattutto i luoghi delle varie epopee guerresche garibaldine. Seguono nuovi incitamenti di Garibaldi alla lotta armata contro lo straniero che ancora vessa le terre italiche irredente e contro il pontefice che benedice quelle truppe di occupazione, pontefice oggi beatificato ma allora definito da Garibaldi come “un metro cubo di letame”. L’inaugurazione termina tra gli applausi e il tripudio di tutto il popolo. Inizia poi il percorso di visita verso altre realtà cittadine, frettolosamente addobbate e presidiate dal notabilato locale: la caserma della Guardia Nazionale, la Scuola Pubblica e il Convitto, l’Ospedale degli Esposti, l’Ospedale degli Infermi e dei Militari, e così via. Dovunque Garibaldi è accolto dalle ovazioni della folla e dispensa appassionati discorsi in favore della nazione armata e della liberazione di Roma e Venezia.

Si arriva così al pomeriggio dell’11 aprile e un altro sacerdote “liberale”, don Giuseppe Mandelli di Vailate, porge un entusiastico saluto al Generale, dicendo anche: “Noi uniremo le nostre armi alle vostre, per combattere a pro della santa causa d’Italia”. Si vuole insomma accreditare l’idea (abbastanza poco realistica) di un clero cremasco favorevole alla nuova nazione italiana e non condizionato dalla politica dell’Antonelli e dei suoi referenti locali, di appartenenza ecclesiastica territoriale o di diretta dipendenza pontificia. Il voluto riecheggio, nelle parole di don Mandelli, dell’eco delle vicende riguardanti il sacrificio di don Ugo Bassi, don Enrico Tazzoli e degli altri martiri come loro è piuttosto evidente. Garibaldi risponde in questo modo ai sacerdoti presenti: “Difendete il Cristianesimo, che è la vera Religione, e predicate il Vangelo nella sua purezza, e non come la corte di Roma, che lo copre di menzogne e lo falsa”. In pratica, impartisce loro un’improvvisata lezione catechistica, che riscuote naturalmente il plauso dei destinatari. Si arriva così al momento dei saluti e del commiato. Giuseppe Zambellini e Paolo Braguti rivolgono gli ultimi apprezzamenti e omaggi a Garibaldi, che si accinge ad avviarsi verso Castelleone e Soresina tra le solite due ali di folla acclamante. Prima di accomiatarsi, Garibaldi prende ancora la parola e raccomanda ai cremaschi, una volta di più, “concordia e operosità per l’indipendenza e l’unità d’Italia”. Farà poi giungere ai cittadini di Crema, il giorno successivo, il 12 aprile, da Soresina, un telegramma di sentito ringraziamento per la calorosa accoglienza ricevuta.

Fin qui la storia ufficiale. È la storia della visita a Crema di Garibaldi descritta nel fascicolo coevo già citato e ristampato dieci anni fa, la storia di quelle giornate ripresa e raccontata successivamente da diversi commentatori locali, tra i quali va ricordato il già citato don Giuseppe Degli Agosti, che nel numero del 16 aprile 2011 del settimanale cremasco Il Nuovo Torrazzo ha riassunto efficacemente i vari momenti di quella visita. Però c’è un’altra storia, meno nota, che si sta svolgendo in quel periodo, probabilmente proprio in quelle settimane, che in qualche modo riguarda tanto Garibaldi, quanto alcuni esponenti cremaschi che lo accolgono in città. Una storia che arriva a Crema da due città nelle quali agiscono allora due centri di potere e di influenza molto importanti: la città di Torino, dove l’8 ottobre 1859 è stata fondata la Loggia Ausonia e dove dall’inizio del 1860 la Massoneria nazionale, di ispirazione monarchica e moderata, vicina alla dirigenza governativa, sta riorganizzandosi dopo i decenni della Restaurazione, e la città di Palermo, dove nel corso della spedizione dei Mille si è formata una nuova centrale della Massoneria, influenzata da Garibaldi e dal “garibaldinismo”, con tendenze radicali e persino repubblicane. Tanto che subito nascono dissidi in ambito massonico, con i contrasti tra i massoni Giuseppe La Farina e Filippo Cordova, inviati da Cavour in Sicilia mentre è ancora in corso quella spedizione, e i massoni vicini a Garibaldi, come Francesco Crispi. Si tratta di divisioni che peseranno per diversi anni sullo scenario del rinato Grande Oriente d’Italia. E che cosa c’entra Crema? C’entra, e parecchio. E quello che succede a Crema, forse proprio nelle settimane in cui si colloca la visita di Garibaldi, non è certo qualcosa di favorevole alla Massoneria radicale “garibaldina” guidata dalla centrale di Palermo, bensì qualcosa di positivo per il Grande Oriente d’Italia con sede a Torino.

Diciamo prima che la Costituente Massonica italiana, svoltasi a Torino dal 26 dicembre 1861 al 1° gennaio 1862, a cui hanno partecipato i delegati delle 23 Logge allora all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, non ha risolto la vertenza col centro massonico palermitano, che Garibaldi protegge e sostiene. La Costituente ha però definito molte altre questioni in sospeso e ha fissato le nuove Costituzioni per l’intera Italia, spianando la strada, dopo la rinuncia di Costantino Nigra, alla nomina di Filippo Cordova alla carica di Gran Maestro. La successiva votazione finale del 1° marzo 1862 ha infatti anteposto Cordova proprio a Garibaldi, che esce sconfitto dal confronto e la prende molto male. Quando quindi Garibaldi arriva a Crema in aprile, è da poco reduce da questo smacco, che gli brucia parecchio. È infatti non solo un Eroe dei Due Mondi ma anche un Massone dei Due Mondi, celebrato dai Grandi Orienti di più continenti. È un 33° Grado del Rito Scozzese ed è munito di titoli massonici altisonanti, ritenuti pittoreschi da qualcuno e tuttavia di sicura presa e notevole effetto, anche ai fini politici, sulla società del tempo, molto diversa da quella attuale. Ma torniamo a Crema.

La data precisa del cosiddetto “innalzamento delle colonne” della Loggia “Serio” all’Oriente di Crema non è certa, ma potrebbe essere collocata tra il mese di marzo e il mese di maggio del 1862. Esiste un elenco di “Fratelli” di poco successivo, diviso in Maestri, Lavoranti (o Compagni d’Arte) e Apprendisti. E ci sono diverse schede personali con date di ingresso proprio in quei mesi, anche nelle settimane della visita di Garibaldi a Crema. Il Maestro Venerabile della “Serio”, che è anche Venerabile della “Cenomana” di Brescia e di una struttura in fieri a Bergamo (forse un cosiddetto “Triangolo”), è stato intimo di Cavour ed è un fedelissimo del Grande Oriente d’Italia con sede a Torino. Quindi, nell’aspra contesa con la Massoneria palermitana, la nuova Loggia cremasca si pone in antitesi ai tentativi di Garibaldi di prendere il potere nella Massoneria nazionale. E c’è di più. La “Serio” fa parte, come si è detto, di un tridente importante, con Brescia e Bergamo, a ridosso del Veneto ancora irredento. È una collocazione davvero strategica per quelle forze in campo. Annovera circa 80 “Fratelli” (un numero considerevole), parecchi dei quali molto influenti sul territorio: aristocratici, professionisti, possidenti, una sorta di élite locale.

Tutto questo Garibaldi non lo sa ancora. Passa per Crema e non sa che chi guida le cerimonie di benvenuto, in realtà, si è da poco unito a coloro che si oppongono ai suoi tentativi di far prevalere la centrale palermitana su quella torinese. Non sa che presto la “Serio” sarà autorevolmente rappresentata nella Loggia “Osiride” di Torino, nella quale si stanno concentrando i principali membri del Gran Consiglio di Torino, lo stesso Gran Maestro e i più importanti Venerabili italiani, anche in funzione di difesa e sviluppo delle istanze liberali, cavouriane e moderate della Massoneria torinese contro le ambizioni radicali, repubblicane, talvolta addirittura socialiste, della massoneria palermitana. Garibaldi a Crema è accolto dai suoi avversari “in casa massonica”. Chi sono questi avversari, allora in incognito?

Sono alcuni dei notabili locali che l’hanno ricevuto e accompagnato nelle sue visite cittadine. Sono vari esponenti delle istituzioni locali che hanno presenziato ai suoi discorsi. Si tratta, ad esempio, del già citato Paolo Braguti, che oltre a essere sacerdote, letterato, educatore, studioso e filantropo è anche massone. Si tratta del predetto dott. Giuseppe Zambellini, Segretario della giunta comunale. Si tratta dell’assessore Faustino Branchi, che l’ha accolto in Municipio. Tutti massoni della “Serio”. Ma c’è di più. Della stessa Loggia fa parte pure il Sindaco, il dott. Angelo Cabini. A casa del quale Garibaldi si è recato in visita l’11 aprile, per confortarlo durante la malattia con il suo saluto: è l’abitazione posta all’attuale numero 35 di via Alemanio Fino, sulla cui facciata una lapide ricorda tuttora quell’incontro. Il Sindaco Cabini, che ha il grado di Maestro, potrebbe essere persino tra i fondatori della “Serio”.

È questa la piccola storia, poco nota, di quei giorni, dietro la grande Storia tramandataci dalle cronache ufficiali. Che ci offre un Garibaldi, una volta tanto, inconsapevole del terreno su cui si sta muovendo e ignaro di chi siano realmente i suoi interlocutori.

Pietro Martini


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