3 aprile 2021

Cinquant'anni fa finiva sull'asfalto del Viale di Riccione il sogno di Angelo Bergamonti, il campione di Gussola

Sono trascorsi cinquant' anni da quel terribile pomeriggio del 4 aprile 1971 in cui Angelo Bergamonti salì per l’ultima volta in sella ad una moto, ma il ricordo del fortissimo pilota di Gussola rimane indelebile, soprattutto nel cuore di coloro che ebbero la ventura di conoscerlo, di seguirlo nelle gare. Un nugolo di tifosi che in quell’anno andava moltiplicandosi di giorno in giorno, strappandoli, anche, al grandissimo Giacomo Agostini con il quale aveva ingaggiato una sua privata battaglia. Soprattutto la sua generosità in gara, contrapposta alla fredda lucidità del bergamasco, eccitava la folla degli appassionati. Una fine, la sua, arrivata prematuramente e proprio nel momento in cui il suo passaggio dalla Patton alla MV, la casa per cui correva anche il pilota di Lovere, stava finalmente creando un dualismo che avrebbe potuto diventare il succo del campionato mondiale dando anche un’esatta misura del valore di Agostini che, privo di validi avversari in quel periodo, aveva già messo in bacheca una decina di titoli iridati passando da dominatore su tutte le piste del mondo.

Diluviava quel giorno sul vialone che costeggia l’arenile e Angelo, sotto quella pioggia noiosa e pungente, inseguiva un sogno e la moto di Agostini: era solo una prova di campionato italiano e probabilmente nemmeno sarebbe valsa la pena di spremersi tanto e di rischiar la pelle, ma la carica agonistica di Angelo, posto di fronte all’altro finalmente a parità di mezzi tecnici, era divenuta incontrollabile.

“Ago”, al via, aveva potuto approfittare delle difficoltà del gussolese a partire, soprattutto sul bagnato. Il terribile incidente che un paio di stagioni prima, in Spagna, lo aveva quasi mandato all’altro mondo, gli aveva infatti lasciato una lieve zoppia. Diluviava sul viale di Riccione e d’improvviso la MV di Angelo ebbe un sussulto, un'impennata angosciosa lo gettò pesantemente contro il cordolo del marciapiede, esanime. Una caduta per molti versi inspiegabile: colpa dell’eccessivo ardore con cui marciava all’inseguiomento del rivale? Colpa dell’aquaplanning? O, ancora, di un grippaggio improvviso del motore che lo proiettò in avanti, oltre la moto stessa?

A tanti anni di distanza i misteri di quella fatale caduta rimangono ancora avvolti nel buio più fitto: lo saranno per sempre gli attimi estremi della vita di un pilota che entrò nella leggenda dello sport più per quello che aveva promesso di fare che non per i risultati effettivamente ottenuti e in un modo che ancor oggi lascia disorientati, perplessi, increduli, coloro che assistettero a quell’inspiegabile incidente. Lo stesso Agostini che standogli davanti, non vide la caduta, ancor oggi attribuisce tutta la colpa alla generosa voglia di vincere di Bergamonti, alla sua mancanza di prudenza su di un percorso estremamente periglioso.

Mi aveva raggiunto - racconta - ma io lo avevo staccato un paio di volte. Gli avevo dimostrato di potergli stare davanti tranquillamente, ma lui ha voluto tentare ugualmente rischiando troppo.” Angelo Bergamonti era nato a Gussola nel 1939 e a Gussola aveva costruito tutta la sua vita e la sua carriera nel campo dei motori in una stretta officina alla quale lo teneva legato una travolgente passione per le motociclette e, in genere, per i motori. Fu costretto a lasciarla solo agli inizi del 1967 quando il contratto con l’Aermacchi, la prima casa che finalmente gli metteva a disposizione un valido mezzo meccanico, lo costrinse ad abitare vicino a Varese, ma fu una sistemazione momentanea: amava troppo Gussola, ove sarebbe sicuramente tornato una volta chiusa la carriera di corridore.

Meccanico abilissimo, conoscitore di tutti i segreti di qualsiasi motore, aveva fatto della sua officinetta, al paese, il ritrovo fisso di tutti gli appassionati della zona; a dimostrazione delle sue doti precipue di meccanico era addirittura riuscito a costruire una sua motoretta, dotata di un motore da 48 cc partendo da due motori di motosega accoppiati, di cui esiste ancora qualche esemplare gelosamente custodito dagli amici, tifosi di un tempo, che portava il suo nome. Un sognatore. Lo era sin da ragazzo. Un idealista capace di immergersi per ore nel lavoro d’officina estraniandosi dalle cose del mondo e pensando a quelle corse, a quelle emozioni forti e inebbrianti che solo le motociclette da Grand Prix potevano dargli, emozioni che aveva appena assaporato quando, diciottenne, s’era lanciato in quel mondo abbacinante a cavallo di una Morini Settebello con la quale era riuscito a mettere insieme un numero imprecisato di cadute e qualche piazzamento di poco conto. Non aveva scuola, allora, nemmeno esperienza, tanto meno assistenza: solo tanto, tantissimo coraggio e un’immensa forza di volontà a sostenere una passione inguaribile.

A 21 anni, sposandosi, mise da parte tutti i sogni e le aspirazioni di giovane corridore e, complice la situazione familiare, per qualche anno si occupò soltanto dell’officina, dei suoi motori, dei clienti che divenivano sempre più numerosi, attratti dalla sua simpatia e dalla sua competenza. Cominciò a dedicarsi, tanto per rimanere nel mondo delle competizioni, alle gimkane vespistiche e, manco a dirlo, non si lasciò scappare l’occasione per conquistare il titolo italiano con il Vespa Club fi Cremona ma, in segreto, continuava a sognare piste e Gran Premi, circuiti e moto potenti. Esplose, la sua irrefrenabile passione, nel 1965. Si sentiva pronto per nuove esperienze, nuovi cimenti. Balzò in sella alla vecchia Morini che mai aveva abbandonato, usandola solo in qualche passeggiata con gli amici, ed iniziò dal Campionato della Montagna scoprendosi all’improvviso veloce e vincente, tanto da essere stimolato in breve a quello ben più impegnativo della velocità juniores. Vinse entrambi i campionati con estrema facilità e fece il bis, l’anno seguente, in quello della Montagna. Poi il 1967, l’anno della consacrazione definitiva con l’ingresso nel novero dei corridori di professione, finalmente e non in punta di piedi. Era in sella ad una Morini, stavolta bialbero, e dominò il Campionato Italiano nelle 250 raddoppiando il titolo con la Patton 500 e mettendo in mostra non solo quella classe cristallina che stava prepotentemente emergendo, ma pure una duttilità singolare, in un corridore quasi alle prime armi, nel pilotare mezzi diversi e sui percorsi più svariati.

Era l’11 giugno quando a Pergusa chiuse il duello tricolore con le Benelli e le Contesa nella 250; ancora con le Benelli e le Norton nella 500. Nella 250 fu subito una gara torrida: Grasselli e Pasolini lo strinsero in una morsa che poteva essere letale attaccandolo a vicenda. Le due Benelli, notoriamente più veloci e resistenti, tentarono di stroncare sul ritmo la sua Morini, ma Angelo ebbe l’accortezza di mettersi tra di loro. Lasciò andare Grasselli e gli bastò controllare Pasolini arrivandogli davanti sul traguardo e raggranellando i punti necessari ad aggiudicarsi il titolo.

Nella 500 ebbe vita più facile. Il vantaggio di punti sugli avversari era ormai abissale e la sua Patton non era poi tanto inferiore alla Benelli di Pasolini che vinse facilmente la gara mentre Angelo si portava a casa il suo secondo titolo. Due volte tricolore a distanza di pochi minuti. Una grande soddisfazione al termine di un’annata comunque tribolata, come tutta la sua grande e sfortunata carriera. V’era stato addirittura un momento in cui, per una serie di guasti, era rimasto senza motocicletta e lo stesso costruttore, Pattoni, un artigiano sempre alle prese con problemi finanziari, aveva peregrinato per mezza Italia in cerca di una moto che permettesse al suo unico corridore di rimanere nel giro. Fortunatamente, era spuntato un appassionato francese pronto a mettere a disposizione la sua moto con la quale Angelo aveva vinto sul Circuito di Ospedaletti, uno dei più difficili. Poi, a stagione inoltrata era venuta la chiamata della Morini che aveva scaricato Grasselli e Villa dando anche a Bergamonti la possibilità di guidare la sua famosa bialbero. In quel modo s’era immediatamente materializzato il successo prestigioso di Modena migliorando il record della corsa che apparteneva proprio ad Agostini, quindi era arrivata una vittoria sul circuito stradale di Zingonia ed un secondo posto a Vallelunga.

Sul finire dell’anno, forte dei due tricolori intascati, decise di preparare il debutto in campo internazionale partendo dalla Spagna, ma i soldi erano sempre pochini: ci si doveva arrangiare. In paese, allora, si mobilitarono tutti, dal falegname al fabbro, al panettiere. Trasformarono il vecchio Transit che serviva all’officina in un camper attrezzato sul quale Angelo, la moglie e le figlie affrontarono la trasferta in terra di Spagna. Tutti i tifosi si diedero da fare e le mogli non furono da meno: dai cassetti del camper spuntavano pinze e tenaglie, martelli e chiavi inglesi, ma anche pacchi di tortelli e tagliatelle fatte in casa, tutto quanto potesse servire alla trasferta che coinvolgeva tutta Gussola, Angelo, coni pochi quattrini a disposizione, ma con la fama nascente di conduttore di classe e la determinazione di chi conosce il proprio valore al di la di ogni presunzione, prese di petto l’avventura spagnola. Il 27 settembre a Siviglia, il 24 a Guadalajara ed il 1 ottobre a Jerez, dominando il campo della 350, si trovò improvvisamente idolatrato dalla folla spagnola esaltata dalle sue doti spettacolari di attaccante votato alla battaglia, ma nell’ultima prova della tournèe (si correva a Madrid il 18 ottobre), stava viaggiando con circa mezzo minuto di vantaggio sul secondo quando, durante il sorpasso di Monza, 3 settembre Agostini davanti a Bergamonti un doppiato, si ritrovò in un groviglio di uomini e motociclette: erano caduti in nove e la peggio toccò proprio am lui, l’unico che, in quel momento, non aveva interesse alcuno a rischiare. Attimi terribili. Si temette per la sua vita posta in pericolo da una commozione cerebrale (frattura della base cranica) e da svariate altre fratture agli arti inferiori. I primi bollettini medici gli davano il cinquanta per cento di possibilità di sopravvivere. Il console italiano a Madrid lo visitò più volte in ospedale e, alla fine, si preoccupò del rientro in Italia della moglie e delle figlie, più tardi dello stesso sfortunato corridore appena gli fu concesso di lasciare il letto. Sembrava finita, per lui, proprio nel momento in cui la sorte, dopo dopo avergli fatto assaporare l’ebbrezza dell’agonismo ai più alti livelli, lo aveva portato sull’orlo del baratro, ma Angelo era uomo dalle sette vite: cinque mesi dopo l’incidente, a febbraio e dopo un inverno trascorso a macerarsi nel dubbio della possibile ripresa, era pronto a ricominciare e volle farlo partendo ancora una volta dalla Spagna, stavolta ad Alicante. pilotando e vincendo con quella Patton 500 che gli aveva riservato le sensazioni più belle. Era la conferma della sua capacità di misurarsi coi piloti più forti anche a livello internazionale. Angelo aveva già 31 anni quando la casa di Cascina Costa l’aveva chiamato. Si confermava, dunque, pilota di valore internazionale, capace, di portare al traguardo qualsiasi mezzo in ogni cilindrata. Nessuno, più di lui, appariva in grado di passare da una moto all’altra, dalla minuscola cilindrata della Vespa alle moto più grosse con la stessa facilità e gli stessi brillanti risultati. In un solo anno, il 1969, aveva spaziato dall’Aermacchi 125 alla Patton 500, dalla Minarelli 50 alla Patton 350, dalla Morini alla Drixton nelle 250.

1970: stagione della definitiva consacrazione con la chiamata alla MV Agusta. Dopo una serie interminabile di piazzamenti alle spalle di Agostini, cominciava a nascere negli appassionati il dubbio e il sospetto che, a vincere, fosse più la moto che il pilota e che, ad armi pari, l’esito delle corse avrebbe potuito essere diverso. L’accordo con la MV avvenne a stagione quasi conclusa partendo, u f f i c i a l m e n t e, come compagno di squadra del campione del mondo che aveva bisogno, secondo quanto s’andava dichiarando ai quattro venti da parte dei dirigenti della casa, di uno stimolo in più che lo costringesse a dare il meglio di se stesso, molto più probabilmente, per assicurarsi un gregario capace di coprirgli le spalle e togliere punti ad avversari che stavano crescendo.

Era il sogno della sua vita e si apprestò a viverlo con la consapevolezza che, trent’anni compiuti, altra simile occasione non si sarebbe più presentata. Il 17 settembre, fedele agli ordini di scuderia, tallonava Agostini al Gran Premio delle Nazioni sia nella 500 quanto nella 350 permettendogli di conquistare agevolmente i punti che gli mancavano per assicurarsi i due caschi iridati e due settimane più tardi tornava in Spagna, a Barcellona, per l’ultima prova del mondiale che Agostini, ormai col titolo in tasca, disertava. Dominò entrambe le classi senza la possibilità di misurarsi col rivale assente. In compenso, migliorò i due record da lui stabiliti l’anno precedente sul tortuoso circuito catalano lanciando il guanto di sfida per quella partita che, a detta di tutti, avrebbe dovuto tener desto l’interesse del mondo motoristico nel campionato successivo. Superare Agostini, pur con lo stesso mezzo a disposizione, non poteva comunque essere facile impresa e lo scontro, già all’inizio di stagione e prima che il mondiale iniziasse, fu subito un duello allo spasimo, infuocato ed equilibrato, entusiasmante, sul filo dei decimi di secondo.

Il 14 marzo, al debutto, Angelo, caricatissimo, vinse subito a sorpresa nella 350. Un’ora più tardi Agostini lo beffò a sua volta nella 500, ma per farlo, fu costretto a rasentare siepi, muretti e marciapiedi, a rischiando come forse non aveva mai fatto in vita sua. Per la prima volta, doppo tanti anni, il campione bergamasco avvertiva la presenza di un avversario capace di batterlo: Bergamonti e Agostini naturalmente ne era infastidito. La domenica successiva, si correva a Rimini: le vittorie di classe si invertirono, ma Bergamonti ebbe, in più, la soddisfazione del record sul giro nella 500. Gli altri non esistevano più, la lotta era ristretta alla coppia, i migliori in campo con le moto più veloci. Il campionato mondiale che stava partendo, oltre a quello italiano, sarebbe stato una questione tra i due piloti della MV, una rivalità che ormai andava dividendo l’Italia appassionata di motori con i tifosi del pilota di Gussola che aumentavano da una domenica all’altra, affascinati dal suo stile di guida, dalla spericolatezza che andava dimostrando in pista, dalla mancanza di timore reverenziale nei confronti del pluricampione, dalla voglia, latente, di metter fine al dominio incontrastato dell’avversario. Il 4 aprile 1971 a Riccione, le condizioni climatiche si presentavano proibitive. L’asfalto lucido e bagnato tradiva punti di pericolosità estrema. Al via delle 500, Agostini balzò immediatamente al comando, lestissimo a partire, come sempre. Bergamonti, che faticava più del previsto, transitò al primo giro in quinta posizione, ma iniziando una rimonta spregiudicata e spettacolare, stabilì un impensabile primato sul giro nonostante si gareggiasse in mezzo alla bufera. Piombò inatteso alle spalle di Agostini. Questi accelerò, ma se lo vide subito dopo ancora alla ruota. Stava proprio per tentare il sorpasso quando si vide la moto decollare mentre per lui si chiudevano l’esistenza, la carriera, la corsa proprio nell’istante in cui gli si sarebbero spalancate le porte della notorietà, della gloria, del mondiale, del sogno della sua vita. Oggi rimane solo un grande incancellabile ricordo in tutti coloro che lo conobbero e apprezzarono quello spirito indomito e battagliero di quell’eterno ragazzo sottile e apparentemente indifeso eppure carico di una forza incommensurabile, di tanta simpatia e alleghria, eternamente innamorato delle sue moto, dell’offricima, del rischio e di quella vita che ha purtroppo prematuramente lasciato sul viscido lungomare di Riccione. Il monumento eretto in paese dagli amici di Gussola è rimasto la testimonianza più bella e sentita di quell’affetto che tutti gli portavano, a conferma della grandezza di questo pilota al quale tempo e sfortuna non hanno permesso di strappare i risultati che le sue capacità avrebbero meritato proprio nell’istante in cui aveva allungato la mano per farli suoi definitivamente.

Cesare Castellani


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti