14 novembre 2023

Bordenacium, Albeningo, Caduellum e Plazanum. Quegli antichi villaggi scomparsi nel cremasco. I nostri ghost-village

Anche il territorio cremasco ha le sue ghost-town, come si usa dire oggi. Magari sarebbe più realistico parlare di ghost-village, volendo proprio fare gli anglofoni. Forse, se li chiamiamo villaggi scomparsi è meglio. Anche perché, in realtà, non conosciamo quali siano state la loro vera entità abitativa e la loro effettiva consistenza umana. Diciamo pure che non sappiamo quasi nulla di questi luoghi. Fatto sta che, forse anche per questo motivo, un certo fascino quei posti lo esercitano ancora. E su di loro, sulla loro storia e, soprattutto, sulla loro scomparsa, una qualche aria di mistero continua ad aleggiare.

Naturalmente possono essere stati innumerevoli, anche nel nostro territorio, gli insediamenti umani creatisi e poi scomparsi senza lasciare traccia, soprattutto prima dell’epoca romana e forse anche nel primo periodo altomedievale. Però ci sono quattro luoghi che, in epoca storica più recente, qualche traccia, magari isolata, in un caso davvero labile, ce l’hanno lasciata. Nel corso del tempo i loro nomi sono stati modificati. Una volta si chiamavano Bordenacium, Albeningo, Caduellum e Plazanum.

Bordenacium

Percorrendo la strada che da Crema va verso Vailate, poco prima di Quintano si vede a sinistra la chiesa di Sant’Ippolito. Alcune centinaia di metri a ponente si trovano degli appezzamenti agricoli noti come campi Bornaci. Sono posti appena sopra i campi Ronchi. La zona dei Bornaci è situata sul confine tra i territori amministrativi dei Comuni di Trescore Cremasco e di Quintano, verso Torlino Vimercati. I Bornaci si raggiungono per sentieri campestri e, più facilmente, per la strada carrareccia, asfaltata anni addietro, che dopo la curva in uscita da Trescore porta a Torlino, nell’ambito della piega quasi a gomito che fa la strada verso settentrione. Fino a qualche tempo fa era una campagna molto bella, ben alberata e ricca di canali irrigui. Il toponimo Bornaci è rilevabile sia dalle vecchie “tavolette” IGM 1:25.000, sia dalla carta tecnica regionale 1:10.000 di alcuni decenni fa, basata su aerofotogrammetrie. Qui c’era Bordenacium, il primo dei nostri quattro villaggi scomparsi.

Dice Angelo Zavaglio nel suo Terre Nostre che l’esistenza di Bordenacium è attestata da un diploma di Enrico VI che elenca questa località tra quelle cremasche cedute dall’imperatore a Cremona. Si tratta del diploma del 1192, riportato da Ludovico Muratori, in cui l’Insula Fulkerii è divisa in vari settori. In quello definito allora della Vafra o Vapria (o in Vaure), compare il nome di questo villaggio, insieme a quelli dei vici di Cremosano, Trescore, Casaletto, Quintano, Pieranica e Torlino. In altri documenti si trovano i nomi di Bordenasio, nel 1412, e di Bordonazzo, nel 1509. La località, anche dopo la scomparsa dell’abitato, avrà poi le denominazioni di Bordenazzo, Bornazzo e Bornaci.

Poiché presso la vicina chiesa di Sant’Ippolito sono stati rinvenuti reperti di epoca tardoromana, si è ipotizzata un’origine di questo vicus tra il IV e il V secolo. Così anche Zavaglio: “Come il culto di S. Lorenzo e di S. Vincenzo ad Azzano e quello di S. Agata a Trescorre, così quello di S. Ippolito, compagno di S. Lorenzo, a Bordenacium sembra sia stato importato dai legionari qui inviati per arrestare le prime invasioni alemanne. Altro elemento di conferma lo troviamo negli avanzi di epoca romana rinvenuti nei campi vicini”. Si veda anche il testo su Quintano di Costante Letterini, del 1990.

Gabriele Rosa, nel suo risalente scritto su dialetti, tradizioni e costumi delle province bergamasche e bresciane, osserva che la radicale germanica bort significa riva, orlo sporgente, bordo fisico. Si è così voluto riferire a Bordenacium il senso di “bordo del Nacium (o Naucium)”, dall’antico nome del rivo d’acqua che attraversa questa campagna. Sulle vecchie carte appare il nome di Noesela (ancora sulla regionale 1:10.000, C6a4, quadr. Pandino), probabilmente forma vernacolare della denominazione Navicella. Il suo corpo idrico scorre in un alveo non scavato artificialmente ma naturale. Il cavo irriguo nasce da alcune vicine risorgive tra Pieranica e Quintano. Un tempo, dopo aver attraversato il territorio di Trescore, scaricava nel Moso. Tra l’altro, nel suo corso più a mezzogiorno dei campi Bornaci e poi Ronchi, scorre tra dei terreni chiamati campi Bordogna. Il nome della località potrebbe quindi ragionevolmente significare villaggio sul bordo del rivo Navicella, che in alcuni vecchi documenti ha anche il nome di Navazzo. Ovviamente, si resta sempre nel campo delle ipotesi.

Non sappiamo per quanto tempo il villaggio sia esistito. Ne rimaneva ancora traccia nel primo periodo del dominio di San Marco. Va detto che l’attuale chiesa di sant’Ippolito non è in realtà quella originaria di Bordenacium. Questa sorgeva poco distante, probabilmente a sera di quella odierna, che fu edificata con la sua torre campanaria dopo le demolizioni della chiesetta del villaggio scomparso e infine del suo campanile, ultimo residuo noto e visibile dell’insediamento primitivo. La zona, allora molto boscata, situata nelle terre umide tra la roggia Acquarossa e il Moso, ricche di selvaggina, non ancora livellate dalle pratiche agricole intensive, deve aver avuto una sua rustica bellezza. Il luogo era anche sede di un romitaggio, vicino all’oratorio di Sant’Ippolito. L’eremita (il rèmech) viveva in povertà in questo ambiente isolato. Dalle fonti d’archivio è stato possibile rilevare alcuni dei nomi di questi abitatori e dei loro periodi di permanenza sui terreni dove un tempo si trovava Bordenacium.

Forse gli abitanti di questo villaggio sono migrati, magari solo in parte, nella vicina Quintano. La scomparsa di Bordenacium resta comunque un mistero. Va anche detto che pochi sinora hanno svolto indagini approfondite. “Il silenzio assoluto che regna su questo villaggio – dice Zavaglio – ci impedisce recisamente ogni altra congettura, e mantiene nascoste anche le cause e le circostanze della sua scomparsa. Pestilenza, incendi, insalubrità del luogo, saccheggio e distruzione, tutte le più svariate sciagure possono essere pensate, perché è ben difficile che un centro abitato si annulli se non per una tragedia violenta. Gli uomini non abbandonano volontariamente e completamente la propria terra”.

Albeningo

Un’antica strada, proveniente da settentrione e prossima al Serio, collegava i paesi di Sergnano e Pianengo, arrivando poi a Crema. Ne restano poche tracce e lo stato dei luoghi consente oggi delle belle escursioni a piedi, in bicicletta o a cavallo, tra i Saletti, il guado seriano del Menasciutto e la palata sotto Sergnano, nel rispetto delle aree di tutela naturalistica nel frattempo instaurate e passando per sentieri, capezzagne e varchi trovati in rimedio all’invasività della monocoltura e ai relativi divieti. Poco a mezzogiorno di Sergnano, costeggiando il dislivello dell’antica ansa fluviale, oggi interrata e resa produttiva, che si trova subito sopra la vecchia cascina Mirabello, si arriva a una chiesetta isolata, a un oratorio che è stato recentemente elevato dalle autorità ecclesiastiche al rango di santuario diocesano. Si tratta della chiesa del Binengo, dedicata al culto mariano. Non ci sono documenti riguardanti la sua origine ma solo due tradizioni popolari. La prima si riferisce all’apparizione della Madonna a una fanciulla che in quel luogo pascolava le oche. La seconda si collega a una statua raffigurante la Madonna e trovata nelle acque del Serio. Come nel caso di Bordenacium, questo luogo di culto è l’ultima testimonianza di un villaggio scomparso, che esisteva un tempo in questa località.

La denominazione Binengo si rileva sulle mappe da un paio di secoli circa. Fino a tutto il Settecento (si vedano anche le varie visite apostoliche nel periodo della Serenissima e i relativi resoconti) le precedenti carte riportano infatti il nome di Albinengo. La dicitura Binengo risulta poi dalle vecchie “tavolette” IGM 1:25.000 e dalla successiva carta tecnica regionale 1:10.000, confine tra C6b3 e C6b4, quadr. Sergnano e Trescore Cremasco. Vari autori attestano la presenza di un villaggio in questa zona, distinto dall’abitato di Sergnano. Ad esempio, si veda ancora Zavaglio e si tenga presente il testo di Gabriele Lucchi su Sergnano, del 1985. Va tenuto conto del fatto che soltanto dopo le leggi cimiteriali napoleoniche si è creato il cimitero comunale, a poche centinaia di metri dalla chiesa del Binengo. In precedenza, quando le inumazioni e le tumulazioni avvenivano in paese, nella piazzetta a monte della chiesa parrocchiale di San Martino, la distanza tra i due insediamenti era molto maggiore e l’area dell’attuale Binengo risultava più isolata, pur trovandosi sul tracciato verso Pianengo.

Lorenzo Astegiano riporta un primo documento del 1022 nel quale il villaggio è chiamato Albeningo, in presumibile forma longobarda. In un successivo documento imperiale del 1192 (già citato in precedenza) il nome è redatto nella forma latinizzata di Albernengum. Successivamente il toponimo si stabilizza in Albinengo. Si è ritenuto da più parti che l’attuale dizione Il Binengo possa derivare dalla identificazione delle prime lettere del nome con l’articolo dialettale al, versione vernacolare cremasca dell’articolo italiano il, quindi con la sua anteposizione al termine Binengo. La supposizione viene talvolta collegata al termine bina (o bihne). E qui le ipotesi sono varie. Ad esempio, il già citato Rosa indica per questa parola longobarda una derivazione dal germanico bühne, una suddivisione di vicinia, gruppo, comunità. Albinengo vorrebbe dunque dire parte della già esistente vicinia di Sergnano, citata in un precedente documento del 947 come Serenianum (è un atto di permuta tra il vescovo di Cremona e i due fratelli Anselmo e Adalgiso, di questo luogo). Invece Francesco Robolotti, nella sua opera di “grande illustrazione” per Cesare Cantù, dice che la parola bina è usata per indicare “ogni riparo, palafitta, chiusa, che trattiene le acque nei tempi asciutti, affinché alimentino i molini o altri canali d’irrigazione”, citando anche il caso di Binanuova. In effetti, in molte vecchie mappe (ad esempio nella carta del Bolzini del 1741), si nota che sia la Babbiona che il Menasciutto hanno inizio da tempi remoti proprio davanti al Binengo. E ancora fino alla metà del secolo scorso si potevano notare, nelle opere di derivazione idrica di queste due rogge, delle traverse e palafitte di chiusa molto antiche. Questo afferma Zavaglio, anche se oggi in effetti la Babbiona, che ha la sua presa sulla riva fluviale opposta a quella del Binengo, deriva dal Serio poco sotto Casale e quindi non all’altezza del santuario.

Pure in questo caso siamo comunque nel campo delle supposizioni. E mancano anche qui informazioni ed elementi che possano darci indicazioni utili riguardo alla vita di questo villaggio, alla durata e alla consistenza dell’insediamento, alle attività dei suoi abitanti, alle ragioni della sua scomparsa. Possiamo solo ipotizzare che la desinenza longobarda del suo nome collochi probabilmente l’origine di questo stanziamento tra il VI e l’VIII secolo. Oppure che sia stato in epoca longobarda che un certo sviluppo si sia verificato. Va comunque notato come anche questo antico villaggio di Albinengo abbia avuto un luogo di culto preesistente all’odierna chiesa del Binengo. Era la chiesetta di Santo Stefano, situata a poca distanza dal santuario attuale. Pure qui, come a Bordenacium, si era trattato di un oratorio andato in rovina dopo la scomparsa del villaggio. La demolizione finale è avvenuta agli inizi del Seicento. Il rinvenimento di tombe molto antiche lascia supporre che la chiesetta fosse prossima al campo cimiteriale di quella comunità. Nella zona sono stati rinvenuti anche resti interrati di fondamenta e avanzi di muri molto robusti, a testimonianza di una presenza umana significativa e duratura.

Anche al Binengo c’erano uno o più eremiti, che si trattasse di religiosi oppure di laici ritiratisi in vita solitaria. Nei secoli più recenti e fino a una certa epoca si è avuta anche la figura dei custodi eremiti, che “trascorrevano la loro vita in preghiera – dice Lucchi – accettando le elemosine dei fedeli e qualche ricompensa per la custodia”. “Al Binengo la casa dell’eremita non era poi così esigua, per cui con progressivi adattamenti, cessato il tempo degli eremiti, non fu difficile immettervi piccole famiglie a custodia della chiesa”. Più in generale, riguardo all’area qui considerata, secondo tale autore “è certo che, in antico, vi sorgeva qualche gruppo di case: lo documentano il nome, l’indicazione della località in documenti e carte geografiche, più i ritrovamenti di fondazioni e tombe”. Zavaglio adduce argomenti simili per confermare che “il Binengo abbia formato un piccolo villaggio”. Però anche in questo caso non sappiamo perché, quando e in che modo sia giunta la sua fine. Pure il Binengo rappresenta in tal senso, almeno sino ad oggi, un caso irrisolto, soprattutto per quanto riguarda la sua scomparsa.

Caduellum

La zona di Ricengo, nel territorio cremasco, è tra quelle che risultano popolate dalle epoche più risalenti. Sono noti i ritrovamenti ascrivibili all’età del bronzo e quelli successivi di epoca forse etrusca e più tardi sicuramente romana. Anche le testimonianze di età longobarda sono numerose e significative, come del resto nei territori vicini. Non lontano dal villaggio scomparso di Albeningo, sui terreni situati poco a levante dell’altra riva del Serio, quella di sinistra, esisteva un insediamento di cui oggi si sono quasi del tutto perse le tracce. Attualmente restano in questi luoghi soltanto una chiesa dedicata al culto mariano, il santuario di Santa Maria del Cantuello, e il cimitero comunale di Ricengo. È in quest’area e sui terreni vicini che si ritiene si trovasse probabilmente lo stanziamento scomparso. La località, situata a ponente del Serio Morto, è vicina al corso della roggia Babbiona e si raggiunge agevolmente percorrendo la strada provinciale 15. Cantuello è il termine corrente utilizzato da parecchio tempo per identificare non solo la chiesa e il cimitero ma anche l’insieme dei terreni circostanti. Il toponimo però non compare più sulla carta tecnica regionale 1:10.000, C6c4, quadr. Offanengo. Siamo vicini al confine meridionale del territorio amministrativo di Casale Cremasco, in una delle campagne un tempo più amene, mosse e variate del nostro territorio, per la presenza delle anse fluviali del Serio con i loro terrazzamenti morfologici e per la ricchezza di acque e di essenze arboree. Purtroppo, anche in questo caso, talune invasive attività manifatturiere, certe deturpanti cicatrici ambientali di cava e il solito sfruttamento agricolo intensivo hanno nuociuto gravemente allo stato dei luoghi.

Secondo Zavaglio, la parola Cantuello deriverebbe da Caduellum, con probabile forma originaria Cà in Cuello, da desinenza latina in -ellum. E ciò con varianti in Caduello, Catuello, Incantuello e altre ancora. Diverse le etimologie linguistiche dalla radice cu- o chue-, che questo autore collega ai nomi Cuve, Cuvello e Cauvello con i quali si è designato un tempo il paese di Covo. Un’altra spiegazione si baserebbe sulla parola latina cautes, che non vuol dire solo roccia, scoglio, macigno ma che potrebbe aver significato anche di ripa, dirupo, terrapieno, forse in riferimento a un abitato sopraelevato sul livello fluviale sottostante, magari anche rispetto a vicine zone impaludate dalle frequenti esondazioni del Serio e dei numerosi rivi naturali allora esistenti in loco. Inoltre, Cautes e Cautopates sono i due assistenti che accompagnano Mitra nell’antico culto romano mitraico, molto diffuso anche tra i legionari nel tardo impero. E poiché in questa zona la presenza romana è assodata e rilevante, sarebbe emblematica una permanenza lessicale riguardante un luogo di culto mitraico trasformatosi poi in tempio protocristiano. Gli dei degli uomini, come è risaputo, cambiano nei secoli più frequentemente dei luoghi di culto delle comunità residenti in un certo territorio. Del tutto diversa è l’interpretazione che fa risalire il toponimo alla denominazione di questo luogo di culto come Santa Maria del Capitello, che potrebbe forse riecheggiare alcune diciture usate per descrivere il luogo, riportate nelle varie visite pastorali di epoca tardo-veneziana, soprattutto settecentesche. Insomma, anche in questo caso ci sono solo ipotesi e nessuna certezza, a partire dal nome stesso di questo villaggio perduto nel tempo.

Tuttavia, in questo caso del Cantuello, il problema non è accertare l’esistenza o meno di una comunità stabile prima della sua successiva scomparsa, quanto quello di trovare dei collegamenti temporali con le varie epoche storiche dalle quali provengono le testimonianze archeologiche emerse da questa località. Infatti, da un lato non si ha alcun accenno al Cantuello nelle raccolte di documenti antichi riguardanti questa zona, mentre dall’altro non mancano le evidenze materiali scoperte in questi terreni e attestanti una presenza umana sicura, stabile e di un certo rilievo. Si parte dai vasi in ceramica dell’età del bronzo trovati nei pressi della chiesa, di cui tratta anche Adriana Soffredi de Camilli in Insula Fulcheria del 1968, per passare ai ruderi interrati, ai resti di fondamenta, ai sepolcri e alle tombe con monete romane di epoca storica a noi più vicina. Tra questi ritrovamenti, Zavaglio cita in particolare “un sepolcreto con scheletro in parte conservato, e un vaso di terracotta contenente parecchie monete romane di Antonino Pio e Faustina sua consorte, rinvenuti nel 1902 al Cantuello”.

Nel 2013 è stata rinvenuta al Cantuello una stele funeraria posta dalla liberta Bacchis a Licinius Niger, databile alla prima età imperiale. Si veda in proposito Francesco Muscolino, in Epigraphica del 2020, che collega questa scoperta all’altra lapide, proveniente dalla stessa zona, di Tertius Naevius, un militare della Legio XV Apollinaris. I due rinvenimenti epigrafici e altri elementi, ricavabili dalle indagini archeologiche e da vecchie segnalazioni e scoperte in quest’area, danno un’idea dell’importanza del Cantuello in epoca romana. Sarebbe quindi logico ipotizzare una continuità dello stanziamento tardoimperiale nei secoli immediatamente successivi, anche alla luce di questa rilevante presenza umana, almeno fino agli inizi dell’epoca altomedievale. In questa fascia territoriale, le testimonianze del periodo longobardo sono numerose e di sicuro interesse, soprattutto in riferimento alla realtà della vicina Offanengo. Non è difficile presumere che pure al Cantuello questa continuità si sia mantenuta.

Anche la chiesa del Cantuello non è però quella del villaggio scomparso. Non sappiamo dove celebrassero i loro riti religiosi gli abitanti di questa località. Forse nello stesso posto in cui si trova l’attuale santuario, forse poco distante. Si è ipotizzato che nella prima metà del XII secolo si sia edificata la chiesa di impianto medievale precedente a quella attuale, anche in base alla tessitura di ciò che resta del suo parato murario. Infatti ne restano visibili tracce di muratura in opus spicatum nelle pareti esterne meridionali e settentrionali. L’edificio attuale, che sembrerebbe ricalcare le dimensioni di quello medievale, è stato probabilmente costruito tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Non sappiamo se tali edificazioni siano state realizzate quando ancora l’area era abitata. Quasi sicuramente non lo era quando fu costruita la chiesa attuale. E probabilmente anche quando fu eretta la chiesa medievale il posto non era più popolato. Si tratta, anche in questo caso, di congetture senza riprova. Di certo però sappiamo che, da molti secoli, questo luogo di culto era stato mantenuto volutamente isolato, a causa del suo utilizzo come lazzaretto durante le ricorrenti epidemie di peste e di colera.

Secondo Zavaglio, “Cantuello è da giudicarsi più antico di Ricengo, e forse questo si è formato dal primo quando esso per cause ignote scomparve”. L’abitato romano di Caduellum (o Cuellum) si sarebbe spopolato con lo sviluppo del vicus longobardo di Runcingo o Rugengo, che però allora risultava come Cuginco o Cugengo. E questo all’inizio del VII secolo. L’autore adduce poi alcune considerazioni a supporto di questa tesi. E cita, tra le altre, anche una “ragione del culto”, per la quale il culto di Maria, che si ha al Cantuello, risalirebbe ai secoli V e VI, mentre quello di San Pietro, quale si ha a Ricengo, sarebbe caratteristico dei secoli VIII e IX. Difficile però andare oltre simili supposizioni. In effetti il primo documento in cui si attesta l’esistenza del paese di Ricengo è solo dell’anno 842, oltretutto in modo così alterato che, senza il sussidio della documentazione posteriore, sarebbe arduo riconoscerne la denominazione. Da Cuginco o Cugengo si arriva a Rucogingo, poi a Rungingo, quindi a Rugengo e infine a Ricengo. D’altra parte, pure a Ricengo e nei terreni circostanti non sono mancati i ritrovamenti di epoca precedente, anche qui a partire da quelli dell’età del bronzo e proseguendo poi con i riscontri di epoca romana e altomedievale. Insomma, anche nel caso del Cantuello, nonostante le evidenze archeologiche antiche siano più numerose rispetto a quelle dei casi precedenti, non sappiamo per quale motivo, in che periodo e in quali circostanze questo villaggio sia scomparso.

Plazanum

Del villaggio di Plazanum (o Placianum) non resta più nulla. Nemmeno un edificio di culto succedaneo di precedenti luoghi di devozione, contrariamente a quanto è avvenuto nei tre casi esposti in precedenza. Oggi rimane solo la campagna su cui l’antico villaggio si estendeva prima di scomparire. E resta solo la denominazione Piazzano data localmente ad alcuni campi che si trovano al confine tra i territori amministrativi dei Comuni di Casaletto Ceredano e di Credera Rubbiano. Il toponimo però non compare più sulla carta tecnica regionale 1:10.000, C7b1, quadr. Credera Rubbiano. È comunque agevole identificare i terreni su cui sorgeva il villaggio. Questi si trovano a levante della strada comunale che congiunge Casaletto a Cà de’ Vagni passando per la cascina Piletta e a ponente dell’altra strada comunale che, iniziando poco prima del cimitero di Casaletto, congiunge il paese alla strada provinciale 169. La zona presenta dislivelli morfologici, terrazzamenti e anche alcune “fughe”, cioè forre piuttosto marcate, a volte arricchite sul fondo da rivi di flusso variabile, ricche di vegetazione spontanea ed essenze arboree, che danno al paesaggio una selvatica bellezza. Il villaggio sorgeva sui campi posti in rilievo più elevato, per alcuni livelli di costa, rispetto al circostante piano di campagna. Qui siamo infatti sull’antica costa sudoccidentale dell’Insula Fulkerii, protesa verso il fiume Adda.

Alessandro Caretta, anche con un noto saggio in Insula Fulcheria del 1963, ha dato un contributo fondamentale agli studi su questa “località perduta”, come è stata da lui definita all’inizio di quel suo articolo. Innanzitutto l’autore ha corretto l’impostazione di Cesare Vignati (seguita da altri, come ad esempio Giovanni Agnelli), per cui Plazanum avrebbe dovuto ricercarsi a Corte Palasio. Inoltre ha asserito che il toponimo ha quanto meno origine romana. L’insediamento sarebbe da ricondursi alla gens Platia, nel senso di un fundus appartenente a un membro di tale famiglia. Le forme ortografiche più antiche (Plazanum, Placianum, Palacianum, Plazano) rivelano il substrato romano e alcuni resti di materiale murario rinvenuti in loco possono ascriversi a tipologia romana. Vignati faceva invece risalire l’origine del villaggio al X secolo, quando le invasioni ungare l’avrebbero fatto sorgere per necessità di difesa. L’ipotesi più attendibile sembra dunque quella di una continuità lungo l’epoca tardoimperiale e quindi longobarda. Caretta evidenzia poi le carte medievali che ricordano Plazanum. Infatti, in questo caso, se da un lato sono sinora pochi (almeno ufficialmente e con avallo degli enti preposti a tali ritrovamenti) i reperti di materiale fittile occasionalmente venuti alla luce nel corso dei lavori agricoli, da un altro lato sono frequenti le fonti che, a più riprese, soprattutto tra l’XI e il XIII secolo, testimoniano l’esistenza di questo insediamento, che si rattasse di un centro di una certa importanza oppure di un semplice pagus o forse soltanto di una curtis rurale munita di qualche difesa.

In due atti, in una cartula iudicati del 1188 e nel già citato diploma imperiale del 1192, Plazanum è inserito in elenchi che enumerano le località dell’Insula Fulkerii. Ma già nel 1094 la località compare in una dichiarazione dei due coniugi Dolce del fu Riccardo da Ombriano e Contessa del fu Tumizone da Rovereto, a proposito del denaro ricevuto per la vendita di alcuni loro beni al monastero del Cerreto. In realtà, Plazanum compare non nel corpo del documento ma nell’annotazione appostavi nel 1284 dal notaio Anselmo da Mellese nel compilare il Liber jurium civitatis Laudae. La frequenza con cui Plazanum compare nei documenti di quest’epoca deriva anche dagli articolati rapporti istituzionali ed economici tra l’abbazia del Cerreto e la diocesi di Lodi. Rapporti spesso conflittuali, che alla fine avevano trovato conclusione con il riconoscimento di importanti diritti abbaziali su Plazanum ma con la conferma dell’appartenenza feudale di Plazanum e del suo territorio alla diocesi di Lodi e, di conseguenza, al complesso territoriale dei paesi e del contado su cui i vescovi di Lodi esercitavano la loro giurisdizione in qualità di feudatari dell’impero.

Dalla fine dell’XI secolo Plazanum è dunque un feudo autonomo di signori locali, che compaiono in vari documenti, soggetti al vescovo di Lodi. Ma verso questo feudo vescovile l’abbazia benedettina del Cerreto (dal 1139 in poi cistercense) esercita notevoli diritti e guarentigie, con riscossioni economiche presumibilmente cospicue. Plazanum si trovava infatti allora in una posizione geografica e, potremmo dire, logistica abbastanza importante. L’impianto viario era diverso. Aumentavano i traffici tra Crema e questa parte dell’Insula Fulkerii, mentre esisteva in direzione opposta una strada tra Plazanum e il Cerreto, con un ponte sul Tormo in contrada Benesedi, dove c’era il portus Largiri. Poco oltre funzionava un’importante fornace e più avanti si trovava l’antica grangia dell’Isella. I diritti di passaggio, di trasporto merci e di teloneo erano quindi di notevole interesse economico.

Non è possibile, in questa sede, per motivi di spazio, dar conto delle numerose testimonianze storiche che nei vari documenti, registri e cartolari forniscono notizia non solo dell’esistenza di Plazanum ma forse anche della sua rilevanza. Basti dire che la sua posizione e quindi il suo ambito di influenza era al confine tra i territori lodigiani e cremaschi, per cui alle dialettiche negoziali tra il Cerreto e la diocesi di Lodi si aggiungevano spesso le discussioni e le controversie tra le due realtà istituzionali lodigiane e cremasche, allora sempre più aspre, soprattutto dal XII secolo. In ogni caso, le pretese cremonesi sull’Insula Fulkerii non poterono mai estendersi a Plazanum. È ricorrente la formula, nei riconoscimenti imperiali (più che altro teorici, viste le acerrime resistenze cremasche) delle ragioni cremonesi sull’Insula Fulkerii, “salvo jure Laudensium quod habent in Placiano”, come anche riporta Zavaglio. E ciò a prescindere poi dalle dinamiche più o meno confliggenti tra la diocesi di Lodi e l’abbazia del Cerreto. Su queste tematiche e, più in generale, su Piazzano, oltre che alla già citata opera di Zavaglio, si fa riferimento anche al libro su Casaletto Ceredano di cui sono stati autori nel 2004 Carlo Piastrella e Licia Carubelli, un testo che su questa “località perduta” fornisce interessanti integrazioni e aggiornamenti, sulla scia del lavoro di Caretta (della parte storica è autore Piastrella).

Zavaglio riporta da Vignati e altri la notizia delle cosiddette quattro chiese di Piazzano: San Nabore, San Silvestro, San Vito e Santa Maria. Secondo Caretta si tratta di una “favola”, perché l’unica chiesa di Piazzano è stata quella di Santa Maria, che alla metà del XIII secolo è definita plebana e che sarà successivamente gestita dai francescani. Un’altra discordanza tra questi due autori riguarda il fatto che, secondo Zavaglio, il feudo di Piazzano era territorio cremasco e che le autorità lodigiane se ne erano impossessate per stabilire una testa di ponte oltre l’Adda. Caretta contesta questa qualificazione cremasca di Piazzano. Si trattava di una terra di confine ma, per tale autore, il territorio cremasco non era ancora definito fino al punto tale da includere questa zona. Del resto, quando fu formata la diocesi cremasca nel 1580, Casaletto Ceredano e Passarera (“lunga”) le furono conferiti da quella lodigiana.

Dall’inizio del XIII secolo i documenti riguardanti le vicende di Piazzano si fanno sempre più rari, fino a tacere del tutto. Sembrerebbe logico il parallelismo tra la scomparsa progressiva delle notizie su questa località e quella del villaggio con i suoi abitanti. Non abbiamo però informazioni sufficienti per seguire nei periodi successivi il venir meno di questo insediamento umano. Caretta cita come ultimo documento noto su Piazzano quello del 1261 che riporta il pagamento, da parte della sua chiesa plebana, di una “taglia” al pontefice, insieme alle altre chiese della diocesi di Lodi: “plebes de Plazano solidos VI et medium”. A partire da questa data il silenzio scende sulla comunità di Piazzano e le notizie riguardano solo la sua chiesa, che da un certo momento in poi risulta dedicata a Santa Maria.

Sappiamo che presso questa chiesa si stabiliscono i francescani del terz’ordine regolare di San Francesco, secondo Zavaglio nella prima metà del XIV secolo. Il dato però è del tutto congetturale. Il complesso della chiesa e del convento ospita inizialmente un numero cospicuo di religiosi. Poi però, progressivamente, questo numero risulta sempre più esiguo. Nel frattempo, come si è detto, del villaggio non viene più fatta menzione. Anche il Terni e il Fino non lo citano mai. Successivamente, il Canobio riferisce, nella sua opera storica su Crema, che nel 1657, per ordine dogale, il convento di Santa Maria di Piazzano viene adibito a lazzaretto. I frati rimasti prestano la loro opera e “con tutto ciò – dice Canobio – non nacque mai tragico accidente di morte pestilenziale; ma anzi tutti sino ad uno, quelli che colà a dar saggio di lor sanità erano confinati, uscirono (la Dio mercé) sani e salvi”.

Nella prima metà del Settecento, quando il villaggio di Piazzano è scomparso da tempo, il numero dei frati presenti in loco è ridottissimo. Tutta la zona è ormai disabitata e viene utilizzata solo per le attività agricole. Alla fine, nel 1769 il senato veneto decreta la soppressione del convento di Piazzano. Gli ultimi religiosi superstiti vengono a Crema e si riuniscono ai confratelli dimoranti in Santa Maddalena, vicino alla chiesa di San Pietro Martire. Per gli otto anni successivi la chiesa disabitata di Santa Maria di Piazzano viene saltuariamente officiata dal curato di Rubbiano, a cui era stata affidata. Iniziano le spoliazioni dei materiali edili e di ogni altro bene utile. Dice Zavaglio: “Il 4 aprile 1777 si toglieva alla chiesa del convento l’altare di San Francesco d’Assisi, e veniva trasferito nella chiesa di Rubbiano, dove ancora oggi si trova. Anche il resto della sacra suppellettile venne ceduto alle chiese di Rubbiano e Passarera. Il convento e la chiesa vennero poi demoliti. Così scomparve Piazzano”.

Anche per quanto riguarda questo centro abitato non ci sono quindi elementi precisi sulla sua fine, sui tempi, sui motivi e sulle circostanze della sua scomparsa. Difficile propendere, da un lato, per eventi traumatici, distruzioni, devastazioni oppure, dall’altro, per un lento spopolamento e un progressivo esaurimento della sua esistenza. Siamo infatti del tutto all’oscuro riguardo a quanto sia effettivamente successo alla comunità di questo luogo. Zavaglio, sia pure in modo molto guardingo, fa riferimento a possibili scorrerie e danneggiamenti causati intorno alla metà del XV secolo dalle soldatesche degli Sforza accampate nella zona del Cerreto. Si è detto in precedenza della sua opinione per cui “è ben difficile che un centro abitato si annulli se non per una tragedia violenta”, perché “gli uomini non abbandonano volontariamente e completamente la propria terra”. Caretta pare invece ipotizzare, in via generale e anche in questo caso specifico, un lento decadimento e ritiene che “quando si svilupparono altri centri, Plazanum decadde semplicemente, finché morì per esaurimento”. “In realtà, i centri abitati nascono e scompaiono a seconda delle necessità umane: qualche volta è possibile rintracciarle e metterle in evidenza, altre volte non è possibile. In quest’ultimo caso, confessare la nostra ignoranza è doloroso e non tutti vi si adattano. E nascono così le leggende”.

Tra storia e leggenda

Va detto che, di leggende, il villaggio scomparso di Piazzano ne ha alimentate e ne alimenta ancora parecchie. Va pure detto che, a volte, ciò che sembra leggendario potrebbe diventare, quando arriva lo Schliemann di turno, scoperta archeologica e verità storica. In attesa di significativi ritrovamenti che svelino i segreti, i misteri e i tesori sepolti sotto i terreni di Piazzano, ci si limita in tale sede a rilevare come, tra i quattro villaggi scomparsi di cui si è trattato in questo articolo, l’insediamento di Piazzano sia stato quello che ha suscitato, anche in tempi recenti, maggiore interesse e curiosità.

Infatti, si è già fatto cenno a quanto poco, almeno sino a oggi, si siano approfondite le vicende dell’antica Bordenacium. Qualche interesse in più ha suscitato nel tempo il Binengo, anche per via del santuario esistente, delle forme di devozione mariana sempre attive con celebrazioni e processioni, oltre che delle tradizioni popolari collettive come la sagra del Binengo dell’8 settembre (la fera dal Bineng). Il Cantuello, anche grazie all’opera di una meritevole associazione di volontari, è stato valorizzato dai recenti restauri, mentre i ritrovamenti archeologici di sicuro interesse avvenuti in zona costituiscono una valida premessa per future indagini, ricerche e scoperte. Piazzano colpisce anche perché, in quei luoghi, non c’è più niente. E si tratta di luoghi molto belli, forse pure in ragione della loro, almeno per ora, non facilissima percorribilità (pur tenendo presente – e su ciò ci si limita a un no comment – il crossodromo creato sul limite a mattino degli antichi terreni della “località perduta”).

Insomma, Piazzano ha un fascino tutto suo. E quando c’è il fascino c’è anche, non sempre ma spesso, il mistero. In effetti, attraversando i terreni sopraelevati e le “fughe” ombrose di Piazzano, a piedi, in bicicletta o a cavallo, una certa aria misteriosa si respira. Il luogo deve avere un genius loci, un Geist che ispira non solo i viandanti e i cavalieri solitari ma anche diversi esploratori col metal detector, che ogni tanto percorrono i campi sfidando le ire degli agricoltori locali. Quest’aria “strana” l’aveva colta anche Zavaglio: “un antico canale pensile in cotto scavalca la via molto infossata, assai boscosa sui margini rilevati e non priva di una maestà selvaggia propria di altri tempi; l’antico colore e l’anima di quella località ricca di strana e tragica storia pare che vi siano rimasti, con mirabile anacronismo, intatti”. Oggi il canale pensile è in cemento. E tra i cercatori è difficile dire se ci sarà uno Schliemann.

Nelle immagini a corredo dell’articolo sono riprodotti, in sequenza:

- nell’immagine 1, alcuni dei terreni sopraelevati su cui sorgeva Piazzano;

- nell’immagine 2, la strada che scende dal luogo dove si trovava Piazzano, a valle della scarpata;

- nell’immagine 3, (a) la cartina dell’area in cui Piazzano aveva sede, con i terreni circostanti di pertinenza (carta tecnica regionale 1:10.000, aerofotogrammetria 1982); (b) una mappa settecentesca con la zona specifica del convento dei francescani, ultimo residuo edilizio di Piazzano; (c) il primo resto di materiale murario rinvenuto nella località dove sorgeva Piazzano (frammento di tegola di tipo romano);

- nell’immagine 4, un’altra cartina dell’area in cui era situata Piazzano, con una visione più ampia rispetto alla precedente immagine 1 (vecchia “tavoletta” IGM 1:25.000).

Le immagini 1, 2 e 3 (b) sono tratte da Carlo Piastrella, Licia Carubelli, Casaletto Ceredano. Una storia tra Cerreto e Piazzano, Crema, Leva Artigrafiche, 2004.

Le immagini 3 (c) e 4 sono tratte da Alessandro Caretta, Plazanum, in “Insula Fulcheria”, n. 2, 1963, Crema, Tipografia A. Leva, pp. 59-69.

L’immagine 3 (a) è tratta da una cartina in proprietà dell’autore.

Pietro Martini


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Marco Pelloni

16 novembre 2023 20:49

Grazie per la ricostruzione storica, molto interessante conoscere il passato dei luoghi.

Pietro Martini

19 novembre 2023 15:28

Grazie a lei, per la cortese attenzione e per il suo commento.