8 settembre 2022

Crema e la sua autonomia provinciale

Crema e il suo territorio non costituiscono oggi una provincia autonoma. Durante i tre secoli e mezzo di dominio della Serenissima, l’autonomia amministrativa di Crema era di livello provinciale. Successivamente tale autonomia non è più stata riconosciuta. Questo articolo tratta di come la nostra città ha perduto il rango di capoluogo di provincia e di come, fino a un certo momento, ha creduto di poterlo riavere. Il periodo preso in esame è quello che va dalla prima campagna d’Italia da parte francese, nel 1796-1797, fino alla conclusione del primo generale riordino amministrativo del nuovo Stato nazionale italiano, nel 1865. In meno di un settantennio si chiudono per Crema le possibilità di riottenere la sua autonomia provinciale. Nel successivo periodo di oltre un secolo e mezzo, cioè fino a oggi, nessun tentativo valido, nessun progetto concreto, nessuna azione credibile ha permesso a Crema di tornare ad avere, come un tempo, la qualifica di provincia.

Parlare di autonomia provinciale implica però l’esistenza delle province. Non è chiaro se attualmente in Italia le province esistano ancora. Questo non in senso strettamente giuridico, in quanto sono chiari i vari passaggi normativi che hanno portato alla realtà istituzionale in cui si trovano attualmente questi enti locali. Il dubbio sulle province e sulla loro attuale esistenza, funzione e competenza riguarda la gente comune, le persone ordinarie, il cittadino medio, il cosiddetto uomo della strada. L’incertezza è socialmente diffusa, nei discorsi abituali e nella percezione generale. In molti si chiedono se le province siano state abolite, come si era sentito dire, oppure se le cose siano andate diversamente. L’incertezza è tale da far pensare, a molti italiani, che l’abolizione delle province rientri tra le fattispecie umane difficilmente ascrivibili alle scienze esatte. Come l’abolizione della povertà. O come altre abolizioni, annunciate da questo o quel balcone. Le abolizioni ma anche le riapparizioni. L’Italia è la patria delle abolizioni e delle riapparizioni. Come la riapparizione dell’impero sui colli fatali.

Siamo un popolo di abolitori e rievocatori. Ebbene, le province sono tra le entità abolite e riapparse. Come nei giochi di prestigio. Sono la prova che anche il diritto amministrativo può avere qualcosa di magico. Se si chiedesse per strada ai passanti se le province ci siano ancora oppure no, la risposta più frequente sarebbe: non lo so. Il mistero delle nostre province è, come ogni tipico mistero italiano, complicato e contorto. È un mistero innestato dentro altri misteri, un arcano contenuto in altri enigmi politici riguardanti le istituzioni locali. Questi sortilegi amministrativi, come succede nelle matrioske, si imbozzolano l’uno dentro l’altro e vengono muniti di locuzioni definitorie con un alto tasso simbolico-liturgico-rituale (area vasta, area omogenea, comprensorio, unione di comuni, libero consorzio comunale, comunità montana, comunità isolana, forse manca solo la comunità di pianura). Ma allora, possiamo ancora parlare di autonomia provinciale, non sapendo se le province sono vive o morte?

Proviamoci. E affrontiamo un altro impedimento. Da quando i vessilli del federalismo, del decentramento, delle autonomie regionali e della decostruzione istituzionale sventolano e garriscono al vento, sbruffando e arruffando, parlare di province non soltanto pone il dubbio sulle loro ectoplasmatiche presenze ma suona anche fané, démodé, fin de race. Che sia morta o viva, comunque la si chiami, la provincia non va, non tira, non intriga. Oggi gli enti locali devono avere appeal e le province hanno un branding obsoleto. Non sono smart, fancy, trendy. D’altra parte, come potrebbero, questi zombie amministrativi? Lo stesso termine provinciale sta ormai per arretrato e zotico, perché il mondo è sempre più metropolitano, e appunto la città metropolitana è il nuovo traguardo demografico, urbanistico e amministrativo. E poi, come si è detto, oggi va di moda il regionalismo e le regioni sono la panacea per tutti i mali. Le regioni sono democratiche, significano libertà, mentre le province hanno qualcosa di autoritario, ricordano le gerarchie del passato. Non è una questione giuridico-amministrativa. È una questione psico-socio-amministrativa. E vivendo nell’epoca dello psico-socio, tanto basta.

Appurato quindi che si parla di realtà non solo dubbie ma anche senza alcuno charme mediatico, parliamone ugualmente, visto che ogni tanto ancora oggi, in modo confuso e velleitario, il tema dell’autonomia provinciale riemerge ogni tanto all’ombra dei campanili cremaschi, nei discorsi di qualche candidato elettorale, negli articoli di qualche giornale, in qualche appuntamento culturale cittadino. La nostalgia autonomista si collega soprattutto a una situazione politico-amministrativa risalente, come si è detto, ai tempi in cui il leone di San Marco ruggiva ancora in città e nel contado circostante. Crema era un avamposto avanzato di Terraferma veneta e la Serenissima, con la saggezza che usava con le popolazioni e i territori strategici per le proprie politiche istituzionali ed economiche, aveva confermato gli antichi statuti e i privilegi dei Cremaschi, risalenti all’epoca comunale e consolidati da un’evoluzione plurisecolare caratterizzata da grande libertà, piena autosufficienza e forte specificità. In termini amministrativi (ma non solo) i problemi dei Cremaschi cominciano con Campoformio. Tralasciando le epoche più lontane, si può dire che le province italiane dell’età moderna siano in buona parte figlie dei dipartimenti francesi, cioè siano un’emulazione cisalpina del razionalismo rivoluzionario transalpino. Di quel tempo in cui, dovendo tradurre arrondissement, si diceva da noi provincia o circondario, diviso poi in mandamenti, divisi poi in comuni, secondo la geometrica compulsività dei nostri gallici liberatori. Centralizzazione, razionalizzazione, schematizzazione. Questa è stata, per i Cremaschi, la ghigliottina amministrativa che ha messo fine alla loro provincia.

Ovviamente, le province ci sono sempre state, in Italia e dovunque, fin dall’antichità. Da noi, nell’ambito del diritto romano e poi nella storia del diritto italiano, la divisione della pubblica amministrazione in ambiti territoriali, demografici ed economici è avvenuta nei secoli insegnando agli altri come fare e non viceversa. Però, quando abbiamo innalzato nelle nostre piazze gli alberi della libertà e bruciato pubblicamente i diplomi nobiliari, certi rapporti di forza erano cambiati. Ed è cominciata per noi la fase della dipartimentalizzazione amministrativa, applicata in modo sommario e artificiale a delle realtà che erano strutturate storicamente in modo ben diverso. Già in Piemonte i dipartimenti erano stati introdotti dopo la conquista francese. Poi erano stati rinominati divisioni, a loro volta ripartite in province. In Lombardia si procede in modo analogo. Il problema del mancato riconoscimento di una provincia cremasca (o almeno solo cremasca) nasce così, nel luglio di 225 anni fa.

In realtà, dire luglio non è esatto. Dovremmo dire messidoro. I Cremaschi non riescono a farsi valere e a interloquire con i cittadini transalpini in modo sufficientemente valido. Di conseguenza, la situazione amministrativa di Crema e del territorio cremasco viene pregiudicata. Con legge 20 messidoro anno V repubblicano (8 luglio 1797) la Repubblica Cisalpina aggrega Lodi e Crema nel Dipartimento dell’Adda, che comprende la precedente provincia austriaca di Lodi, la precedente provincia veneta di Crema, la zona di Melzo, la parte di Castelleone, la Gera d’Adda con Treviglio e Caravaggio e altri territori minori. Il capoluogo è stabilito a turno tra Lodi e Crema, con cambio ogni due anni. Ma già dal 1° settembre 1798, con legge 15 fruttidoro anno VI, quando la Cisalpina riduce i Dipartimenti da 20 a 11, il Dipartimento dell’Adda viene soppresso e la maggior parte del suo territorio, compresi i due capoluoghi, è assegnata al Dipartimento dell’Alto Po, con capoluogo a Cremona, mentre altre zone sono assegnate al Dipartimento dell’Olona, con capoluogo a Milano, e al Dipartimento del Serio, con capoluogo a Bergamo. Crema diventa solo sede di Distretto, il 9° sui 21 totali del Dipartimento.

Una generale riorganizzazione territoriale avviene poi con la legge 23 fiorile anno IX (13 maggio 1801). Crema rimane nel Dipartimento dell’Alto Po, vale a dire in posizione subordinata a Cremona, e ne forma il Distretto II, dopo che i Distretti di questo Dipartimento sono stati ridotti da 21 a 4 (I Cremona, II Crema, III Lodi, IV Casalmaggiore). Per Crema, le cose sono quindi andate di male in peggio: dopo la breve ma molesta coabitazione con Lodi, ecco la regressione a propaggine territoriale di Cremona. Per i Cremaschi è un’onta, come tornare ai tempi di Bonifacio e di Matilde, anzi peggio, a quelli dell’Assedio e degli Ostaggi. Anche in questa fase di riordino amministrativo, i Cremaschi non riescono ad avere alcuna voce in capitolo. E dire che c’erano tutte le intelligenze, le volontà e le risorse per farsi sentire in modo efficace. Invece, prima manca l’azione, poi abbonda la lamentela.

Dopo il Congresso di Vienna e la costituzione del Regno Lombardo-Veneto, la ripartizione territoriale ai fini amministrativi cambia di nuovo. I Cremaschi sperano di poter riacquistare, alla luce dei notevoli cambiamenti politici e istituzionali intervenuti, la propria autonomia provinciale. Però anche in questa occasione (e si sarebbe trattato di un’occasione importante) i loro tentativi non hanno esito positivo. Pure stavolta qualcosa va storto, non funziona, non porta al risultato atteso. Dopo la imperiale regia patente del 7 aprile 1815, che crea giuridicamente il Lombardo-Veneto; dopo le varie imperiali regie patenti che configurano gli assetti organizzativi per le congregazioni centrali e provinciali, le strutture giudiziarie, le sedi militari e i vari uffici amministrativi, arriva l’ordinanza del 12 febbraio 1816 sull’amministrazione dei comuni in tutte le province del Regno. E arriva, sempre in quel fatidico 12 febbraio, la notificazione sul nuovo compartimento territoriale della Lombardia, da attivarsi dal 1º maggio 1816. Così, Crema va a far parte della provincia Lodi-Crema, con grande scorno dei Cremaschi, non solo per la riedizione della convivenza provinciale coatta con Lodi, come tra il 1797 e il 1798, ma anche perché questa volta Crema solo nominalmente condivide con Lodi il rango di sede capoluogo. Infatti, quasi tutti gli uffici e le sedi dei pubblici poteri sono a Lodi e il titolo di co-capoluogo offre a Crema benefici così limitati da far apparire subito questa concessione come un espediente meramente consolatorio. Anche il cosiddetto “innalzamento al rango di regia città” di Crema, attuato con determinazione del 16 gennaio 1816, risulta avere in fondo lo stesso significato, visto che il titolo di città, con qualificazione ufficiale, era già stato riconosciuto a Crema da Venezia. Questa provincia viene divisa in 9 Distretti, dei quali i Distretti VIII e IX corrispondono al territorio cremasco (Crema è nell’VIII). La notificazione del 23 giugno 1853 riduce poi i Distretti da 9 a 7. Crema e il suo territorio, dopo questo riordino territoriale, vanno a comporre il nuovo Distretto V.

Tuttavia, per i Cremaschi il peggio doveva ancora venire. Arriva infatti dopo lo sgombero austriaco, dopo l’armistizio di Villafranca e poco prima del trattato di Zurigo. Siamo al primo ministero La Marmora, che dura dal 19 luglio 1859 al 16 gennaio 1860 (Cavour si è dimesso dopo Villafranca e torna poi in carica dal 23 gennaio 1860 al 6 giugno 1861, data della sua morte). Ministro dell’Interno è Urbano Rattazzi. Occorre ridefinire la geografia amministrativa dello Stato sabaudo dopo l’acquisizione della Lombardia e sta per essere emanata la legge 23 ottobre 1859 n. 3702 («legge Rattazzi»). Lo stesso Piemonte è ancora ripartito in divisioni e province e si avverte la necessità di un adeguamento generale. A Crema c’è fermento, questa volta l’obiettivo di riottenere l’autonomia provinciale non può essere disatteso. Però le argomentazioni non riescono a diventare una proposta operativa. Per farla breve, anche questa volta l’obiettivo viene mancato. Tra lo sconcerto, il rammarico e l’avvilimento generale, Crema diventa, come ai tempi del cosiddetto Alto Po, parte della provincia di Cremona. Nel complesso, quasi tutte le province lombarde subiscono modifiche limitate. Solo la provincia di Pavia beneficia di forti ampliamenti in territori già piemontesi (l’Oltrepò e altre parti oltre Ticino), mentre la provincia di Lodi-Crema viene abolita e smembrata: Lodi va con Milano, Crema con Cremona. E il fatto che in quella circostanza anche i Lodigiani innalzino geremiadi offre scarso conforto ai Cremaschi.

A Crema ci si illude che la «legge Rattazzi» abbia valore di disposizione transitoria, visto che con i plebisciti, con le annessioni (per la Lombardia vale però la fusione seguita al plebiscito del 1848) e con i propositi di ulteriori ampliamenti territoriali, poi confermati dalla spedizione garibaldina e dalla campagna nell’Italia centrale, si dovrà necessariamente porre mano in modo più complessivo e approfondito agli assetti amministrativi del nuovo Stato nazionale in via di formazione. In effetti, già il decreto di Vittorio Emanuele II del 30 novembre 1859 n. 64 introduce integrazioni e modifiche al provvedimento. Nel frattempo, l’amministrazione locale del Regno di Sardegna viene riordinata, sul modello francese, in province, circondari, mandamenti e comuni. Crema è ora soltanto sede di circondario. La provincia di Cremona ha allora tre circondari (Cremona I, Crema II, Casalmaggiore III). Quello di Cremona ha 7 mandamenti, 134 comuni e 160.062 abitanti. Quello di Crema, la cui superficie è allora di 25.460 ettari, ha 4 mandamenti (Crema I, Crema II, Pandino III, Soncino IV), 68 comuni e 76.560 abitanti, dei quali 8.240 residenti nella città di Crema (solo nel 1928 saranno aggregati al municipio di Crema i comuni di Ombriano, San Bernardino e Santa Maria). Il circondario di Casalmaggiore ha 6 mandamenti, 42 comuni e 98.169 abitanti. Da notare i due mandamenti in più e i circa 21.600 abitanti in più del circondario di Casalmaggiore rispetto a quello di Crema.

Nel mandamento di Crema I, ci sono la città di Crema e altri 26 comuni del Cremasco, per un totale di 30.468 abitanti. In Crema II, ci sono altri 23 comuni del Cremasco, per un totale di 18.442 abitanti. In Pandino III, ci sono Pandino e altri 9 comuni, per un totale di 13.984 abitanti. In Soncino IV, ci sono Soncino e altri 7 comuni, per un totale di 13.666 abitanti. Va tenuto presente che allora i comuni erano, per composizione territoriale, per denominazione ma anche per loro propria esistenza autonoma, piuttosto diversi da quelli attuali. Nelle province con popolazione tra i 300.000 e i 400.000 abitanti, come in quella di Cremona, il consiglio provinciale è composto da 40 membri. Il circondario di Crema ha in consiglio 9 rappresentanti. Di questi, 4 sono del mandamento di Crema I, 2 di Crema II, 2 di Pandino III e 1 di Soncino IV. Dal consiglio provinciale viene eletta la deputazione provinciale, vale a dire la giunta, che nel caso di Cremona (cioè tra i 300.000 e i 600.000 abitanti) è composta da sei deputati effettivi, in pratica gli assessori, e due supplenti. Alla guida della provincia c’è un governatore, poi rinominato prefetto con R. D. 9 ottobre 1861 n. 250, rappresentante del Ministero dell’Interno e con funzioni di coordinamento generale dei poteri amministrativi provinciali.

Intanto è iniziato il terzo ministero Cavour e, dopo un paio di mesi di reggenza interinale da parte dello stesso Cavour, il Ministero dell’Interno è andato, il 24 marzo 1860, a Luigi Carlo Farini, che non è piemontese ma romagnolo. Farini resta alla guida di questo dicastero fino al 31 ottobre 1860, quando gli succede Marco Minghetti, bolognese. Siamo nel periodo della VII legislatura, l’ultima antecedente alla proclamazione del nuovo Regno d’Italia. In sessione unica, questa legislatura dura dal 2 aprile al 28 dicembre 1860. Farini presenta alla Camera un disegno di legge, approvato il 24 giugno 1860, per l’istituzione presso il Consiglio di Stato di una commissione legislativa per lo studio e la composizione di progetti di legge sulla riforma dell’ordinamento amministrativo. La commissione svolge i suoi lavori dal 13 agosto 1860 al 4 marzo 1861, quando già Minghetti è subentrato a Farini. È importante la Nota introduttiva di Farini, che illustra i principi e le linee generali della riforma proposta, favorevole alle autonomie locali e contraria all’eccessiva centralizzazione. Una valorizzazione delle province più rispondente alle realtà storiche, la creazione delle regioni, la diminuzione dei vincoli e dei pesi della burocrazia centrale, questi sono alcuni degli elementi portanti della prevista riforma. A Crema, l’ipotizzata possibilità di rivedere le scelte territoriali riguardo ai comparti provinciali crea speranze e aspettative. In tutta Italia il dibattito si accende però soprattutto sul tema delle regioni e, più in generale, sul problema delle maggiori o minori autonomie locali.

Le elezioni politiche per la VIII legislatura sono molto combattute a Crema. Le ragioni sono varie. Tra queste, è importante avere in parlamento una voce rappresentativa delle esigenze di autonomia provinciale per Crema. È dunque necessario mandare alla Camera di Torino la persona giusta, qualcuno in grado di contare su validi appoggi politici e su buoni affidamenti governativi. L’VIII legislatura dura dal 18 febbraio 1861 al 16 maggio 1865, è articolata in due sessioni ed è a tutt’oggi una delle più lunghe nella nostra storia parlamentare. Deputato per il collegio elettorale di Crema durante la VII legislatura era stato Enrico Martini. Per l’VIII legislatura viene eletto Faustino Sanseverino Vimercati, deputato in precedenza per il collegio di Soncino. Martini tornerà poi deputato per Crema nella IX e nella X legislatura, fino alla morte avvenuta il 24 aprile 1869. Pochi giorni dopo la scomparsa di Cavour, il 12 giugno 1861 inizia il primo ministero Ricasoli, che dura fino al 3 marzo 1862.

Minghetti, che era già subentrato a Farini il 31 ottobre 1860 durante il terzo ministero Cavour, viene confermato da Ricasoli nel ruolo di Ministro dell’Interno. La commissione presso il Consiglio di Stato creata da Farini aveva terminato i propri lavori da alcuni mesi. Minghetti, che resta alla guida di questo dicastero fino al 1° settembre 1861 (sarà poi lo stesso Ricasoli a gestirlo ad interim, fino al termine del suo mandato), aveva già dal mese di marzo, con l’assenso di Cavour ancora in vita, anche sulla base dei lavori di quella commissione, presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge governativo sul decentramento amministrativo del nuovo Stato, progetto appoggiato anche da importanti federalisti come Giuseppe Montanelli. La discussione alla Camera dei deputati si svolge in diverse sedute e anche le commissioni e gli uffici ministeriali partecipano a quello che diventa un dibattito molto esteso, fattosi poi anche molto acceso nei mesi iniziali del primo ministero Ricasoli.

In realtà, il collegamento tra la riforma proposta da Minghetti e le speranze dei Cremaschi di ritornare ad essere titolari di una provincia autonoma è piuttosto indiretto. Però lo si vuole cogliere comunque, in quanto il fatto che si ridiscuta degli assetti amministrativi dello Stato potrebbe aprire con una certa facilità il discorso sulle divisioni territoriali. Anche altrove, ad esempio a Lodi, questa possibilità è ben compresa e ci si attiva di conseguenza. Il circondario e la municipalità di Crema decidono di sfruttare questa opportunità inviando al governo italiano una petizione ufficiale, nella quale si richiede la costituzione di una autonoma provincia cremasca. In realtà la petizione è inviata formalmente «Al Parlamento Nazionale», anche se si punta molto sul ruolo del ministro Minghetti. Sottoscrivono la petizione cinque consiglieri provinciali dei mandamenti cremaschi: Francesco Sforza Benvenuti, Antonio Bisleri, Carlo Donati, Luigi Griffini e Paolo Marazzi (che è anche deputato provinciale). Per la giunta municipale di Crema, la petizione è sottoscritta dal sindaco, Angelo Cabini, dagli assessori Luigi Baletti, Faustino Branchi, Gian Giacomo Freri e Annibale Horvath, oltre che dagli assessori supplenti Vincenzo Carioni e Timoteo Oldi. Poiché il consigliere provinciale Francesco Sforza Benvenuti è anche uno storico molto apprezzato in città, la giunta municipale di Crema lo incarica di corredare la petizione con un suo scritto che illustri, spieghi e sostenga la richiesta contenuta nella petizione. Questa documentazione è datata 28 aprile 1861. Ma chi è Francesco Sforza Benvenuti?

Come altre città italiane, Crema ha potuto contare nei secoli su vari storici locali, che ne hanno raccontato le vicende nelle loro opere. Uno dei principali storici cremaschi è stato Benvenuti. Quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario della sua nascita. È noto per aver composto un’importante Storia di Crema, pubblicata nel 1859, e un Dizionario Biografico Cremasco, ricco di informazioni e ragguagli storici, edito postumo nell’anno della sua scomparsa, il 1888. Personaggio di spicco dell’Ottocento cremasco, è stato non solo uno storico illustre ma anche un politico impegnato nelle istituzioni locali, un pubblicista attivo nei confronti giornalistici cittadini e un esponente della vita civile e culturale della nostra comunità. Tra le sue opere c’è anche lo scritto redatto a corredo della suddetta petizione del 1861. È un fascicoletto di quarantaquattro pagine, edito in quell’anno a Milano dalla Tipografia di Giuseppe Bernardoni, dal titolo «Crema e la sua autonomia provinciale».

Il testo contiene molti «Schiarimenti e note», con argomentazioni che sembrano piuttosto ben condotte. Si parte dalle «Tradizioni storiche», sottolineando l’autonomia del passato e l’importanza di elementi non solo numerici e quantitativi ma anche storici, culturali, spirituali, come certe tradizioni di civiltà e di costumi, come tutto un insieme di valori riguardanti un popolo e un territorio muniti di proprie specificità e di un profilo ben definito, quindi meritevole di autonoma valorizzazione. Segue la parte riferita al periodo in cui, sotto le bandiere di San Marco, Crema e i Cremaschi hanno dimostrato le proprie doti e capacità, meritando tra l’altro il riconoscimento di diocesi autonoma a partire dal 1580. Questa seconda sezione è intitolata «Crema, Capoluogo di Provincia sotto il dominio ella Repubblica Veneta». Una terra fertile e ricca, un popolo industrioso in pace e valoroso in guerra, una funzione militare strategica, delle tradizioni identitarie radicate e irriducibili: tutto aveva portato Venezia a considerare Crema al livello amministrativo delle due «sorelle maggiori» Bergamo e Brescia, riconoscendo a tutte e tre queste città il rango di capoluogo di provincia.

La parte successiva è dedicata alla «Corografia del territorio cremasco». Si svolgono considerazioni sulla miglior forma e organicità dell’ambito provinciale; sull’opportuna centralità del capoluogo rispetto al resto del territorio; sulla auspicata regolarità di conformazione della provincia, la cui «giacitura» non può essere eccessivamente allungata e geograficamente artificiale; sulla sua aderenza ai radicamenti storici consolidati nei secoli; sui rapporti, i collegamenti, le distanze di cui tener conto rispetto ai contesti provinciali circostanti; sui confini «naturali» segnati dall’orografia, dall’idrografia e dalla demografia; sulle effettive direttrici dei traffici, delle comunicazioni e degli scambi logistici con le realtà economicamente in maggior relazione con Crema; sui tradizionali vincoli, affiatamenti e interessi verso alcuni capoluoghi vicini rispetto ad altri (qui l’esempio di Bergamo, ma in parte anche di Milano e Brescia, viene contrapposto a quello di Cremona e Lodi); oltre che su altri aspetti esposti e motivati in modo chiaro, preciso e convincente. Ne risulta l’incongruenza di un’assegnazione di Crema a Cremona o a Lodi e la necessità della sua autonomia provinciale.

Si passa poi al «Sistema idrografico e d’irrigazione», e qui Benvenuti non fatica a contrapporre la realtà del territorio cremasco a quella, molto diversa, del cremonese. Il rigore scientifico adombra gli scritti di Cattaneo e di altri esperti dei sistemi agrari e irrigui del tempo. Mancano alcuni anni all’inchiesta Jacini, che peraltro verterà su elementi distinti ma contigui a tale confronto, e certe pagine di Benvenuti appaiono qui veramente anticipatorie. Basti pensare alla querelle sul canale Marzano, che anni dopo infiammerà gli animi contrapponendo gli interessi cremaschi ai cremonesi. Per non parlare poi di quanto scriverà il giornale «Gli Interessi Cremaschi», non a caso così titolato, a partire da una decina di anni dopo. Benvenuti ha il merito di aver intravisto queste problematiche e queste polemiche. Del resto, la ferrovia in arrivo a Crema un paio d’anni più tardi, nel 1863, è già frutto di determinati condizionamenti nella scelta delle direttrici, dopo che si sono scartate altre ipotesi storicamente e funzionalmente più valide per Crema. Si aggiungono poi le osservazioni sulla tipologia dei validi sistemi di irrigazione tipici del Cremasco e delle grandi opportunità di «sviluppare una forza produttiva» in grado di associare all’agricoltura «i prodotti delle arti meccaniche», anche sfruttando la forza idraulica assicurata dalla rete idrica del nostro territorio. Il confronto con la realtà cremonese sui regimi acquiferi e sulla situazione idrologica è molto efficace.

La parte che segue riguarda il «Sistema stradale», di cui il Cremasco è «doviziosamente e solidamente fornito». La disposizione della rete viaria; la qualità dei fondi e delle selciature; l’organicità di un sistema a raggiera intorno a Crema, ben ordinato e coerente con le esigenze della popolazione; la maggiore difficoltà di collegamento con il Cremonese, causata dalla non centralità di Cremona, affacciata sul Po e lontana geograficamente e logisticamente dal Cremasco; questi e altri aspetti portano a vedere il territorio cremasco e quello cremonese come molto differenti in termini viabilistici. L’impianto viario organicamente incentrato su Crema, impostato durante i secoli della Serenissima, ben ordinato e in reticolo diffuso, viene confrontato con la diversa impostazione viaria cremonese, basata su grosse e scarse arterie in ambiti territoriali molto estesi, collegati nella logica della grande proprietà fondiaria e quindi in un ben diverso contesto demografico, abitativo e dunque logistico. Le considerazioni sul sistema stradale sono associate ai flussi commerciali delle merci. E qui Benvenuti ha gioco facile nel sottolineare l’entità dei traffici tra Crema e altre città vicine rispetto a quelli con Cremona. Il senso è che il Cremasco e il Cremonese non sono soltanto due realtà molto diverse tra loro ma anche due realtà che comunicano e interagiscono molto poco, economicamente e culturalmente.

La sezione successiva si intitola «La città di Crema possiede gli elementi per essere ripristinata Capo-di-Provincia» e rappresenta quasi l’arringa conclusiva rispetto alle sezioni precedenti del testo (Benvenuti era abilitato come avvocato alla professione forense, anche se di fatto non esercitava). Per dare forza all’ipotesi di una distinta provincia avente per capoluogo la città di Crema, Benvenuti propone una sua maggiore estensione rispetto a quella storicamente compresa tra i confini esistenti prima di Campoformio. Da Castelleone si è fatto sapere che l’unione a una nuova provincia cremasca sarebbe gradita, per cui Benvenuti propone, verso sud-est, un confine tra il castelleonese e il soresinese. Verso nord, propone un allargamento che ricomprenda tutta la fascia dei fontanili, il trevigliese con il caravaggese e in generale la striscia di pianura bergamasca più vicina al territorio cremasco. Verso est e verso ovest, i confini naturali e preferibili sono quelli segnati rispettivamente dal fiume Oglio e dal fiume Adda, ricomprendendo cioè anche tutte le aree poste su riva sinistra di questo fiume. In fondo, si tratta di estensioni non eccessive, peraltro compensabili in vario modo. L’unica richiesta piuttosto forte è quella di portare a ovest il confine in riva all’Adda anche nella zona di Lodi, lasciando questa città proprio sul confine e acquisendo i comuni di Boffalora, Dovera, Crespiatica, Corte Palasio e Abbadia Cerreto. Sia pure con questa richiesta alquanto coraggiosa, si tratta nel complesso di una proposta ben strutturata e validamente esposta.

Questa parte dello scritto è composta da una mezza dozzina di pagine. Non si tratta però della parte finale del testo. L’ultima parte è infatti dedicata a dissuadere le autorità competenti dall’eventuale ricostituzione della provincia Lodi-Crema. Il suo titolo è «La ricostituzione della Provincia di Lodi e Crema sarebbe esiziale per Crema». Anche qui, non mancano le considerazioni condivisibili e convincenti. Sono otto pagine in cui si espongono tutte le controindicazioni e tutti gli effetti pregiudizievoli di una simile possibile scelta. Leggendole colpisce una cosa, sia pure con il senno di poi. Probabilmente allora il pericolo maggiore era considerato quello di un ripristino della provincia Lodi-Crema. Mentre, in realtà, l’esistente situazione di appartenenza alla provincia di Cremona era forse l’elemento a cui prestare un’attenzione particolare. D’altra parte, in quel periodo i Lodigiani andavano redigendo delle «Memorie» (una di queste è citata da Benvenuti) per sollecitare alle autorità governative la riedizione di una provincia Lodi-Crema, che di fatto avrebbe assoggettato di nuovo il Cremasco al Lodigiano. È difficile dire oggi quanto allora il puntamento argomentativo dovesse tenere maggior conto di un «problema» cremonese piuttosto che lodigiano. Fatto sta che poi le cose sono andate in un certo modo, mantenendo Crema soggetta a Cremona. Comunque, sarebbe interessante approfondire, sempre che le fonti d’archivio lo consentano, il perché di questa parte conclusiva del testo, così focalizzata sul rischio di una soggezione a Lodi. In fondo, dopo la «legge Rattazzi», il pericolo maggiore non veniva da Lodi ma da Cremona.

Con l’invio di questa petizione, la municipalità di Crema e il circondario cremasco si inseriscono in quel flusso di corrispondenze, istanze e aspettative che da più parti si erano mosse sulla scorta del movimento creato dal progetto Minghetti, che in effetti è citato da Benvenuti nel suo scritto diverse volte. L’iniziativa di Minghetti, riprendendo anche le proposte di Farini e i lavori svolti dalla relativa commissione, tendeva a introdurre nel sistema amministrativo italiano, in fase ancora di formazione e definizione, elementi molto importanti, primo tra tutti l’autonomia regionale, in anticipo sul dettato costituzionale di quasi una novantina d’anni. Questa iniziativa era ispirata anche al fatto che le province non fossero entità fittizie ma fondate su «tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo», privilegiando quella divisione territoriale «che è più lungamente durata». Le province devono avere una loro «personalità», perché, dice Minghetti, «erra chi crede potersi la provincia italiana artificialmente delineare ed ingrandire ad arbitrio, secondo le opportunità; essa è, a mio avviso, costituita dalla geografia e dalla storia». Sono tutti passaggi del progetto di legge che Benvenuti sapientemente cesella e incastona nel suo testo, in un momento in cui i Cremaschi confidano in un proseguimento dell’iter del progetto e in una sua positiva conclusione. 

Però il fiorentino Bettino Ricasoli, il «barone di ferro», non è favorevole all’iniziativa. E il clima politico sta cambiando. La giovane nazione italiana è adesso sotto attacco, diplomatico e non solo, dall’esterno. Ma anche dall’interno, a causa dei moti separatisti e del brigantaggio fomentato dagli esuli borbonici e dalla corte papalina dell’Antonelli. Per cui, si devono serrare i ranghi e va tenuta la guardia alta. E si sa che, quando si è sotto attacco e si deve combattere, troppa autonomia e troppo decentramento fanno correre gravi rischi. I Cremaschi confidano nel progetto Minghetti, sperando che una ridefinizione degli ambiti territoriali possa facilitare un recupero della loro autonomia provinciale. Ma l’elemento più qualificante del progetto è l’introduzione delle regioni, con un loro reale decentramento operativo, ferme restando le altre riforme previste per la pubblica amministrazione, nel senso di una maggiore autonomia degli enti locali e di una generale sburocratizzazione amministrativa. Ed è sulla «questione regionale», per lo meno in via principale, che le discussioni parlamentari, quelle nelle commissioni e anche quelle all’interno delle varie direzioni e dei vari uffici ministeriali, si fanno sempre più accese.

Non è possibile, per motivi di spazio, diffondersi oltre, in questa sede, sulla vicenda di quelle contrapposizioni politiche. Ancor oggi il tema di quella mancata riforma alimenta un’ampia letteratura, sia specialistica che divulgativa. Come sappiamo, i progetti di Minghetti vengono ritirati ufficialmente e abbandonati definitivamente il 22 dicembre 1861. Ma già erano stati affossati da Ricasoli tra agosto e settembre. Così, prevalgono alla fine i timori delle possibili spinte secessionistiche che il decentramento avrebbe provocato, soprattutto nel Meridione, e si affermano le istanze di centralizzazione amministrativa di Ricasoli, a conferma della «legge Rattazzi». Dimessosi il 1° settembre a causa di questa situazione, Minghetti torna alla politica attiva l’8 dicembre 1862, data di inizio del ministero Farini, come ministro delle finanze. Quando Farini è colpito da infermità mentale, il 24 marzo 1863 Minghetti gli succede alla guida del ministero, mantenendo il dicastero delle finanze.

A Crema l’esito negativo dell’iniziativa di Minghetti provoca sconforto e delusione. Va detto tuttavia che l’accantonamento, a livello nazionale, dell’ipotesi del decentramento regionale e delle altre previsioni amministrative di quell’iniziativa non comportava, di per sé, anche una rinuncia dei Cremaschi a perseguire il loro specifico obiettivo di autonomia provinciale. Si sarebbero potute identificare altre strade, magari adattando la stessa petizione e correggendo quel tanto che serviva lo scritto di Benvenuti. In fondo, l’iniziativa di Minghetti era solo un’occasione, uno spunto, un aggancio per far valere l’esigenza di un diverso comparto territoriale e per ottenere il riconoscimento di Crema come capoluogo di provincia. Però in città non si procede oltre nel cercare di raggiungere questo obiettivo, seguendo vie diverse e riprendendo in sede parlamentare o governativa il medesimo intendimento. Non mancano a Crema e nei territori circostanti i personaggi politici che potrebbero farsi parte attiva in tal senso. Lo stesso Benvenuti potrebbe adoperarsi in proposito ma non pare disposto a spendersi più di tanto. Il deputato Vimercati Sanseverino, che era stato eletto, tra i vari motivi, anche per questo, non risulta impegnarsi particolarmente. Forse anche perché di fatto è più milanese che cremasco e altri interessi muovono lui e il figlio Alfonso in area milanese e lombarda, di natura meno politica e più imprenditoriale, in campo bancario, ferroviario e giornalistico. Stefano Jacini è ministro dei lavori pubblici in ben tre ministeri consecutivi. Ma forse, come argutamente dice Benvenuti, quelle «sedici miglia» che separano Casalbuttano da Crema e l’avvicinano a Cremona qualcosa contano. Quanto a Pietro Donati e Luigi Griffini, astri nascenti della politica cremasca, che negli anni Settanta saranno avversari politici nelle lotte elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati, non danno a questa causa alcun contributo significativo. Se anche qualcun altro è in condizione di intervenire, magari in modo valido e forse anche decisivo, non lo fa. E sui motivi di certe inazioni personali, sembrerebbe esserci ampio spazio per ricerche e indagini, cercando approfondimenti in archivi pubblici e privati, a Crema e altrove. Forse, per Crema, questa della mancata autonomia provinciale potrebbe essere non solo una pagina nera a causa della sconfitta subita in proposito ma potrebbe anche tingersi di giallo.

Si arriva così al momento conclusivo riguardo alle aspirazioni e ai desideri dei Cremaschi di tornare ad essere autonomi amministrativamente da altri capoluoghi di provincia. Siamo sempre nell’ambito dell’VIII legislatura, perché la successiva, la IX, inizia il 18 novembre 1865 e, articolata in due sessioni, dura poi fino al 13 febbraio 1867. E siamo al secondo ministero La Marmora, che dura dal 28 settembre 1864 al 31 dicembre 1865. Dopo la convenzione italo-francese di Fontainebleau e la decisione di trasferire la capitale a Firenze, a vari livelli istituzionali si avverte l’esigenza di un generale e completo riordino della pubblica amministrazione, centrale e periferica, e di un’unificazione di tutte le norme legislative amministrative per i vari territori e le diverse popolazioni che via via hanno fatto ingresso nel nuovo Stato italiano. E questo anche in vista di future acquisizioni nazionali, a partire dal Veneto e dal Mantovano, e tenendo sempre lo sguardo fisso al Lazio e a Roma. Su incarico del parlamento, il Ministro dell’Interno Giovanni Lanza prepara una proposta molto corposa e articolata di riforma in tal senso. Si arriva così alla legge 20 marzo 1865 n. 2248, nota anche come «legge Lanza», rubricata come «Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia». Si tratta di un provvedimento che costituisce un caposaldo nella storia del nostro diritto amministrativo nazionale.

Da più parti si parlerà poi di una legge che ha contribuito alla piemontesizzazione dell’Italia. Senza entrare nel merito della questione, sulla quale si sprecano le biblioteche e su cui ancora oggi, come si diceva ai tempi dell’università, «la dottrina è divisa», basti qui dire che il modello della «legge Lanza» non è certo quello delle ipotesi di Farini e di Minghetti ma piuttosto quello della «legge Rattazzi» e delle opinioni di Ricasoli. In pratica, è una legge che riordina, unifica e centralizza. La parte riferita alle province e ai loro territori, con qualche variazione minore, conferma sostanzialmente l’impianto esistente e le precedenti scelte amministrative. Di conseguenza, Crema e il suo territorio restano una propaggine della provincia di Cremona. Da questo momento vengono a cessare, da parte dei Cremaschi, i tentativi validi, seri e credibili di riottenere la loro autonomia provinciale. I motivi di questa caduta di tensione e di attenzione su un argomento così importante, per un periodo superiore al secolo e mezzo, dalla «legge Lanza» fino a oggi, sono diversi e abbastanza controversi. Resta il fatto che qualche vago pensiero e aspettativa ancora si manifestano in proposito a Crema nell’ultimo quarto dell’Ottocento, poi durante il periodo littorio e quindi in epoca repubblicana. Ma è solo fumo, niente arrosto. Su questi rigurgiti e borborigmi autonomistici, senza reale costrutto e spesso solo strumentali, si potrebbe scrivere un articolo a parte.

Tutto sommato, in conclusione, sembra proprio che oggi ormai i Cremaschi si siano messi il cuore in pace. Almeno fino a quando qualcuno o qualcosa li convincerà di nuovo a provarci per davvero. Perché, con questi Cremaschi, non si sa mai come può andare a finire.

Nell’immagine, il frontespizio del fascicolo «Crema e la sua autonomia provinciale», conservato presso la Biblioteca di Crema, e un ritratto del suo autore, il conte Francesco Sforza Benvenuti.

Pietro Martini


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